CRONACHE DAL FRONTE (15° puntata)

CRONACHE DAL FRONTE (15° puntata)

“Il virus? Me lo sento dentro. E’ come se avessi un ospite che si muove a suo piacimento, contro la mia volontà, dentro il mio corpo”. Per fortuna il mio amico Simone sta guarendo. E dal suo letto d’ospedale, al telefono, le sue parole sono per me pennellate vivide che, con grande efficacia, riescono quasi a farmelo vedere, a materializzarne l’immagine di questo piccolo mostriciattolo che abbiamo imparato a conoscere sotto il nome di COVID 19 e che lo sta tormentando da 20 giorni. “Lo senti quando respiri – mi spiega – come un soffio caldo che ti sale da dentro e che ti toglie il respiro. Qualcosa che non è tuo, che non fa parte di te, lo riconosci. Ed è questa per me la sensazione più brutta. E’ come se avessi un ospite che si ribella al mio corpo, che vuole piegarlo al suo volere. Non è come quando si ha una banale influenza, no.” Simone è l’amico e il compagno di tante avventure. Con lui abbiamo schivato i proiettili dell’ISIS in tante battaglie – a Sirte, a Mosul, a Raqqa; ci siamo intossicati con il fumo dei pozzi di petrolio dati alle fiamme a Qayara; abbiamo fatto La Lunga Marcia- a piedi e in autobus – assieme ai profughi siriani che nell’estate del 2015 da Lesbo sono arrivati a Vienna; abbiamo sguazzato nel fango dei campi profughi Royingha, schivando germi e batteri. Abbiamo sempre lavorato ventre a terra e fianco a fianco, proteggendoci a vicenda e rassicurandoci quando buttava male. Solo un mese fa un missile Grad ci è passato di un soffio sopra la testa mentre ce ne stavano cheti cheti all’aeroporto di Tripoli, in Libia. E lui, fermo come una roccia, impassibile, è stato prontissimo a riprendere la scena con la sua telecamera. Un mito, il mio Simone, il compagno ideale per un giornalista un po’ pazzo e molto esigente quale io sono. Scherzando gli dico sempre che lui in realtà sarebbe “inesportabile”, per via del suo accento ternano esibito con orgoglio e anche per una certa diffidenza istintiva per il cibo che non sia delle parti sue. Adora il pollo, però – “lu pollastru”, come lo chiama lui, con gli occhi che ridono – e riesce a mangiarne a quintalate. Mi viene in mente che una volta, a un pranzo in nostro onore, nel Kurdistan iracheno, ce ne portarono due interi, di polli, e noi eravamo in tre. Ebbene, Simone si mise di buona lena e li mangiò da solo tutti e due, arrivando a spolparne le ossa con una tale cura – e gusto – che lo scheick che ci ospitava non sapeva più dove guardare. Simone guarirà. Sta già molto meglio e il suo umore è tornato ad essere quello di prima.Ma dal suo letto d’ospedale continua a dirmi di fare attenzione, perché questo è un virus bastardo, che non fa sconti a nessuno. Io resto qui ad aspettarlo, tutto il tempo che servirà, perché per me Simone è come un figlio – forse esagero, diciamo allora un fratellino – e comunque senza di lui non mi diverto più ad andare in giro per il mondo. P.S. In foto Simone a Makhmour, nel Kurdistan iracheno, nell’ottobre del 2016, all’inizio della offensiva per riconquistare la città di Mosul