CORONAVIRUS. POCHI AFRICANI INFETTI QUI E IN AFRICA? RAGIONIAMOCI SOPRA

CORONAVIRUS. POCHI AFRICANI INFETTI QUI E IN AFRICA? RAGIONIAMOCI SOPRA

E’ da qualche giorno che, tra coloro che cercano di analizzare i connotati del coronavirus al di là dei confini del proprio terrore, circolano interrogativi insistenti in cui si mescolano i sentimenti più svariati. Il primo interrogativo è “Come mai così pochi immigrati tra i contagiati?”. Ad esso quasi sempre segue la ulteriore domanda “Come mai così pochi casi in un continente come quello africano?” In entrambi i casi, alla curiosità scientifica, si accompagnano altre motivazioni di segno opposto. Da un lato un movente di forma altruistica, inteso come preoccupazione che a popoli già colpiti da tante sciagure, stiano per arrivare o siano già in parte pervenute, sciagure analoghe a quelle sofferte oggi dai cittadini di altri continenti. Come dire che il coronavirus dalle loro parti si sia già insediato e solamente la fragilità dei meccanismi di rilevazione ne ritardi il manifestarsi. Una catastrofe, dentro o fuori le mura, che suscita pietà e senso di impotenza. D’altro lato un movente di tipo  xenofobo che spinge ad indurire la chiusura dei confini italiani a chi già cerca di sfuggire alla fame e alle guerre e adesso avrebbe un motivo in più per sfuggire all’epidemia, venendo ad accrescere i nostri problemi. In entrambi i casi però tanto la descrizione del fenomeno quanto la sua interpretazione navigano nella nebbia di una conoscenza tuttora scarsa del fenomeno. Vediamo di approfondire quel tanto che, allo stato attuale, è possibile chiarire, senza per questo voler chiudere le porte a spiegazioni ulteriori. Né purtroppo poter ignorare che, in futuro, quanto si presenta al momento come un fenomeno limitato, possa diventare un aspetto ulteriore e disastroso del cataclisma che stiamo attraversando. Limitiamoci ad analizzare il caso dei soli africani e del relativamente contenuto numero di casi di contagi in due contesti diversi: quello degli immigrati in Italia e quello del paese d’origine di tali popolazioni. Africani in Italia. Così pochi i contagiati e, nel caso, come mai? La spiegazione che se ne può dare attualmente non può sicuramente risultare esaustiva. Al livello delle conoscenze scientifiche accertate si può però dire che una spiegazione singola e decisiva non è sicuramente definibile. Tanto per essere chiari, un’origine di ordine genetico richiede tali e tante conferme dal punto di vista della ricerca che può essere formulata soltanto in via ipotetica. Limitiamoci dunque a fatti incontrovertibili in nostro possesso. La definizione di un campione di popolazione presente in Italia da confrontare col resto degli abitanti  può essere solamente approssimativa. Diamo comunque per corrispondente alla realtà la sensazione diffusa che i migranti contagiati di provenienza africana siano pochi. Perché? Sicuramente la spiegazione principale attualmente disponibile è l’età dei migranti, di gran lunga più giovani della media della popolazione italiana. Così come relativamente pochi sono i nostri under 30/40 anni che sono sicuramente infetti, pochissimi saranno i loro coetanei stranieri. Da qui discendono però altre due considerazioni. E’ dato per scontato dalla ricerca scientifica che la popolazione più giovane, oltre ad essere la meno contagiata, è anche quella che, se infetta, molto più frequentemente degli altri presenta sintomi di entità più lieve se non nulli. Quindi su di loro non viene effettuata che in pochi casi la prova del tampone. Se ciò avviene per i nostri indigeni avverrà sicuramente anche per i migranti. E qui si aggiunge un fattore che occulta ulteriormente il fenomeno del contagio tra i migranti. Più difficilmente degli altri verranno sottoposti alla prova del tampone, sia per ragioni oggettive (assenza di sintomi) che soggettive (volontà, di chi li sfrutta in condizioni tragiche, di spremerli a dispetto delle loro condizioni, senza farli risultare come lavoratori in nero agli occhi delle autorità). A questo si aggiunge un atteggiamento della vittima che collude con quella del carnefice. Nel dubbio e col rischio di essere cacciato un migrante, pure in presenza di sintomi, non richiederà la prova tampone, cui comunque difficilmente verrebbe sottoposto. La sua malattia e la sua morte passeranno agli archivi come dovute a cause differenti dal covid, se pure qualcuno se ne accorgerà. Discorso più ampio e più complesso va fatto per quanto riguarda la diffusione del coronavirus in Africa. Qui qualche dato, più o meno attendibile, lo abbiamo. Proprio oggi, se andiamo a rovistare nelle cifre ufficiali, possiamo vedere come l’Africa abbia superato i 4mila casi di covid sommando i numeri dei casi presenti in tutte le sue nazioni. Ovvio che la prima domanda che viene da farsi è se questi dati sono esaustivi. Certo che no, come, peraltro,  non lo sono in tutti i paesi: le stime vanno da un moltiplicatore di 10 ad uno di 20, come rapporto tra casi reali e casi individuati. Resta il fatto che, nel caso di altre epidemie come l’Ebola, la bomba era stata a tal punto esplosiva che c’era ben poco da nascondere. Sta per accadere altrettanto oggi? Ci auguriamo di no, ma non siamo in grado di fornire una risposta certa. Siamo però in grado di osservare, nei dati disponibili, alcuni fenomeni capaci di indurci ad una riflessione più generale. Il paese col maggior numero di casi è al momento il Sud Africa (intorno ai 1200). Subito dopo Egitto, Algeria, Marocco e Tunisia tutti compresi tra i 600 e i 200 casi. Vale a dire tutti paesi della sponda mediterranea più il Sud Africa. Vale a dire i paesi più vicini alla sfera di influenza occidentale. Sicuramente più dei paesi dell’area saheliana. Il primo di questi ultimi, il Burkina Faso, lo troviamo  al sesto posto. Certo un’area in cui individuare il contagiato risulta più difficoltoso. Ma anche un altro particolare la caratterizza. Si tratta dei paesi collegati in minor misura ai traffici commerciali e più generalmente estranei o quasi alle linee di collegamento di vario genere (treni, aerei e strade) che sono invece presenti nei primi cinque paesi citati. Paesi dove la congestione è minore e dunque, loro malgrado, soggetti a quell’isolamento che del male epidemia costituisce una sia pure sgradevole contromisura. Un po’ come i paesi delle aree interne d’Italia. Derelitti e abbandonati non solo dalla modernizzazione e dai collegamenti, ma anche, almeno parzialmente e finora, dal virus. Qui insorge però un’altra domanda. Che riguarda indirettamente anche i nostri territori periferici. Si tratta di una marginalità tale da produrre un effettivo contenimento del virus? O non piuttosto essa contribuirà solo ad un suo ritardo nel colpire zone finora relativamente marginali nella diffusione dei contagi? Qui ci fermiamo, col terrore nel cuore. Perché se solo di ritardo si trattasse, al momento dell’impatto le conseguenze sarebbero ancor più tremende che da noi. Assenza di strutture idonee al trattamento dei malati, assenza di personale medico. E per di più una cultura che vede nella malattia un fenomeno sociale di cui ci si deve far carico collettivamente. Molto giusta la cosa sul piano etico, se non portasse con sé la conseguenza di una vicinanza al malato da parte dei familiari e dei vicini che rappresenterebbe un ulteriore fattore di diffusione della malattia. Questo lo stato attuale delle conoscenze. Insufficiente a dare risposte esaustive, ma bastante a produrre domande sempre più angosciose, destinate a navigare nell’incertezza del futuro.