CORONAVIRUS: LE POESIE DELL’ ADDIO.
L’epidemia ha reso impossibile il congedo dai defunti. I malati che muoiono negli ospedali ne vanno senza poter dire addio ai loro cari. Diventano dei ‘desaparecisos’, degli “ultracorpi”, che i parenti non possono né lavare né piangere.Forse per questo imperversa il termine ‘Guerra’. Non tanto per la burocrazia lessicale dei tg – “Siamo in guerra!” viene usato anche per i “gelicidi” del ‘generale inverno’… – ma perché la Guerra è l’unico l’evento di massa che, nella memoria comune, priva la morte dell’ultimo saluto (1).Questo dimensione emotiva della pandemia rende ancora più attuale un libro commovente, “Jisei poesie dell’addio”, (“SE” editore), uscito nel 2017a cura di Ornella Civardi, traduttrice e studiosa della letteratura giapponese. “Jisei-scrive l’autrice– si chiama in giapponese, l’ultima poesia, quella composta quando il mondo attorno comincia, silenziosamente, ad allontanarsi e si resta soli con se stessi di fronte al passo più difficile”…. “Nessuna cultura ha coltivato con tanta passione e perseveranza come quella nipponica la tradizione di questo gesto, breve e definitivo, che in pochi versi consegna o ha l’ambizione di consegnare un’intera esistenza – un’anima – a chi verrà’” Una tradizione secolare che arriva sino ai giorni nostri :“L’ultimo jisei di cui si sappia, apparso dopo decenni di desuetudine e amplificato dalla cassa di risonanza del web ” –scrive Civardi –è del 2010. Lo ha lasciato , un grande del cinema di animazione, Satoshi Kon, che a 47 anni ha preso commiato dal pubblico postando sul suo sito un Jisei sorprentemente classico : ‘Colmo di gratitudine per quanto di buono c’è nel mondo,poso il pennello.Con permesso’” Nel libro, il jisei emerge come una ‘pratica’ che viene declinata secondo generi e modalità diverse – dai ‘congedi’ orgogliosi dei principi sconfitti (e condannati) all’umorismo “goliardico” di chi scherza sulla propria fine, alla sincerità (zen) di chi racconta la paura e la resistenza alla morte- e che permette un atto di consapevolezza rivelandoci“una bellezza di cui non ci eravamo mai accorti” .Ho chiesto a Ornella Civardi come queste poesie, struggenti e bellissime, possano aiutarci a interpretare uno shock – quello dei congedi mancati – che colpisce una società che, più di ogni altra, ha rimosso la realtà della morte (1) “ Prima ancora che il contenuto dei singoli testi –risponde– è la tradizione stessa dell’ultima poesiaa parlarci oggi, in questa situazione disperante. Ci dice quanto possa valere, per chi muore e forse ancor più per chi resta, quella parola finale, quel saluto estremo che attenua la definitività della rottura per annodare in qualche modo una continuità dello spirito e degli affetti. A noi occidentali, che in genere crediamo pietoso nascondere al morente la sua condizione e ci sforziamo di allestire davanti ai suoi occhi la recita della speranza, l’idea che possa esistere una consuetudine che costringe a dirsi lucidamente “io sto morendo” sembra quasi crudele. Eppure, adesso che il virus cancella la possibilità di quell’addio, di quell’ultima parola, di colpo ci rendiamo conto di quanto possa essere medicamentosa, di quanto possa attutire la paura in chi se ne va e aiutare chi rimane a superare la perdita”. Lei scrive che Basho, il più grande creatore di ‘haiku’,i ai discepoli che gli chiedevano un ultimo pensiero rispondeva che ogni sua poesia avrebbe potuto essere considerata un jisei’. ”È un’affermazione che parla dell’atteggiamento con cui affrontare la vita e la morte. Vivere la vita a partire dalla morte. Paradossalmente, la cognizione chiara e costante che non si è invulnerabili, che per quanto sani e giovani domani stesso potremmo dover finire, aiuta a vivere meglio. Impone un nuovo filtro ai nostri valori (farei le stesse cose, e con lo stesso spirito, se dovessi morire domani?) e regala un’intensità diversa anche ai piccoli gesti del quotidiano. Per questo lei scrive che la morte – oggi più che mai vissuta come lacerazione – può essere sentita come una forma di illuminazione ? “Sì, anche questo rischio che oggi sentiamo incombere ogni momento su di noi e su chi amiamo, se lo viviamo nel modo giusto, ci può aiutare a spazzare via la cecità indotta dall’abitudine. Può farci aprire gli occhi e vedere, come per la prima volta, le cose e le persone che ci circondano. La bellezza a cui ci eravamo assuefatti, di colpo, sul punto di perderla, riacquista tutto il suo incanto. In questo senso, forse la condizione che viviamo in questi giorni ci lascerà un insegnamento. Finora, nella fretta delle nostre giornate, ci è riuscito facile rimuovere la consapevolezza della morte, ma adesso, proprio adesso che la morte ci appare vicina come mai lo era stata, ci hanno immobilizzato e tolto tutte le distrazioni. Non possiamo più sottrarci, distogliere lo sguardo. È una condizione dolorosa, ma che può dare frutti preziosi. ‘La bellezza del mondo è tale perché la riflettono gli occhi di un uomo già consegnato alla morte’ lascia scritto su un bigliettino Akutagawa Ryūnosuke, uno dei più grandi narratori del novecento giapponese”. Perché in questi jisei ritornano così spesso i temi naturali? “Esiste una consolazione all’angoscia della fine che è tutta laica e prescinde dall’attesa di un aldilà. Consiste nell’imparare ad accettare la morte come un momento della vita, invece che come la sua antitesi. La natura, con i suoi eterni cicli, ci insegna che vita e morte si originano l’una dall’altra, che dalla morte del bruco scaturisce la farfalla. È questa la sua umile promessa d’immortalità. Perciò un grande maestro zen, Ryōkan, ai suoi discepoli lascia scritto: “Per testamento / ecco cosa vi lascio: / i fiori in primavera, / il cuculo di montagna, / le foglie dorate in autunno”. Cioè niente e tutto”. Scriveva così Otani Yoshitsugu “il quindicesimo giorno del nono mese del quinto anno Keicho (1600)” e il destinatario del messaggio era un amico e un compagno d’armi.Ora che la pandemia fa il vuoto attorno a noi e oltre all’ultimo saluto ci vieta anche il funerale di un parente di un collega o di un amico, molti noi di potrebbero ritrovarsi in questi versi e forse ognuno ormai ha qualcuno a cui dedicarli (1) in Vietnam le foto dei nonni e dei genitroi defunti sono su un piccolo altare che sta al centro della casa…e il maggior errore commesso dagli americani fu la distruzione degli altari collocati ai bordi delle risaie
