CARCERI, NON GALERE
Siamo tutti, chi più chi meno, confinati tra le mura domestiche. Uscite limitate per lavorare e per le esigenze improrogabili, possiamo dire che siamo sottoposti a una blanda detenzione perlopiù insieme alle persone che ci sono più care e delle quali ci fidiamo. Le limitazioni alla libertà sono tutto sommato accettabili, eppure in molti stiamo diventando intrattabili a causa dell’ansia che questa minaccia incombente ci procura. Ci sono invece, secondo i dati al 29 febbraio, 61.230 detenuti confinati in luoghi molto meno confortevoli anche della nostra casa più misera. Luoghi progettati per contenere carcerati, in condizioni di promiscuità controllata, in numero mediamente del 20% inferiore. Queste persone il naso fuori da quelle mura proprio non lo mettono, non possono concedersi più telefonate del solito, più televisione, più tempo sui social o più libri, e passano il tempo spalla a spalla con gli stessi estranei di prima mediamente ben poco raccomandabili. L’unico cambiamento che l’epidemia ha portato nelle loro vite è la privazione di quell’unico breve incontro settimanale con i familiari. Una parte di questi 61.230 ha già scontato oltre il 90% della loro condanna, breve o lunga che sia. Altri hanno commesso reati di scarsa pericolosità sociale, altri sono molto anziani o in cattive condizioni di salute e altri ancora sono in attesa di un giudizio definitivo che potrebbe persino dichiararli innocenti. Un gesto di clemenza misurato e ragionato che scarceri una parte dei detenuti non renderebbe affatto le città meno sicure ma al contrario aumenterebbe la sicurezza nelle carceri, e non mostrerebbe affatto la debolezza dello stato ma piuttosto la sua forza.
