EZIO VEDRAME, POETA E CALCIATORE, E QUELL’INTERVISTA A GIANNI MURA SULLA TOMBA DI PASOLINI
“Appartengo a una razza maledetta, a una razza estinta, a una razza senza quartiere. Vivo costante nell’ora dei coltelli, nella galassia dell’amore, nella pattumiera della morte. Per questo vanto ancora il diritto di sognare. Di tutto il resto, io me ne frego. Ma oggi, nella disperazione galoppante che mi circonda, il sangue s’appiccica a tutto quanto c’è di buono. E così, nella miseria della mediocrità dei vostri trucchi e dei vostri maneggi, i miei baci, uscendo dal boato del mio corpo, si disperdono cadendo come foglie morte”. Così scriveva (“Calci al vento”, Rizzoli), Ezio Vendrame, scomparso dopo una lunga malattia a 72 anni: poeta e scrittore, ribelle nel profondo dell’anima, un tempo calciatore dotato di estro e fantasia, un anticonformista che veniva paragonato a Best e a Kempes. Ha conosciuto il successo nel Lanerossi Vicenza, per disputare una stagione, con poche presenze e molte polemiche al Napoli, infine passare al Padova. Si è dedicato, come allenatore, ai giovani, dicendo di adorare soprattutto una “squadra di orfani”, per condannare l’invadenza dei genitori. Ha raccontato nel suo libro “Se mi mandi in panchina, godo” (Edizioni Biblioteca dell’Immagine) il suo distacco dal football, da un mondo sempre più fatto di niente, da personaggi senza qualità, capaci solo di indossare maschere, profeti della vanità e della reticenza. “Mi sono sempre sentito precario rispetto all’esistenza, provando terrore immaginando il futuro. Troppa paura ho ereditato. E non ho mai avuto il dono della preghiera”. Questo era Ezio, nelle sue confessioni e nei suoi furori, nel suo sfregiare l’esistenza, ma nel contempo nel suo credere nell’amore, nell’amicizia, nelle piccole cose. Ho avuto la fortuna di conoscerlo e, per un certo periodo, di frequentarlo. Mi raccontava della sua passione per la musica, delle sue fughe da fermo, della persona che aveva cambiato e stravolto la sua via, il poeta e cantautore Piero Ciampi (quel primo incontro: “Quando varcai la porta, Piero era lì, in piedi che mi aspettava. Ed era bello, alto, irraggiungibile. Gli andai incontro sentendo nel suo profondo sguardo il suo primo tenero abbraccio”), del valore prezioso del silenzio, della forza della letteratura. Ezio partecipò, nel 2005, per volontà di Paolo Bonolis, al Festival di Sanremo: e anche su quel palcoscenico non scese mai a compromessi con le proprie idee, portando l’ironia e la diatriba. Era imprevedibile, meravigliosamente imprevedibile: “Non c’è da stupirsi se una ventina d’anni fa, quando Gianni Mura mi telefonò per un’intervista, gli detti appuntamento al cimitero di Casarsa sulla tomba di Pasolini. Non avevo alternative. Avevo scelto quel luogo perché non si spaventasse. Lì almeno avrebbe trovato anche la persona più viva del paese. Ma la cosa più triste è che non ci saremmo mai incontrati se gli avessi detto di trovarci in una qualsiasi libreria del posto!”. Ritornano i ricordi del prato verde: quando, lasciando i propri tifosi senza fiato, decise di puntare verso la porta della sua squadra: dribblò il portiere, fermò la palla sulla linea bianca e poi tornò indietro, sorridendo; quando, dopo un calcio d’inizio, mise il pallone sotto i tacchetti e, la mano sulla fronte, cominciò a fissare un immaginario orizzonte, tra la perplessità e lo stupore degli spettatori. “Volevo crescere in fretta quand’ero bambino. Perché, privo di angeli custodi, la mia mortalità non commuoveva nessuno. Dovevo urgentemente risalire la stiva della vita. Cancellare le macchie d’inchiostro dal viso. Portare a spasso la mia ombra. Respirare l’aria che avrei scelto soltanto io. Rincorrere fino allo spasimo il mio agognato spicchio di felicità”. Addio Ezio, poeta per sempre.
