DIARI DA UN MONDO CAMBIATO

Il mondo è sospeso. Per quanto tempo, non si sa. Nessuno lo sa. Non lo sanno i virologi, che sembra sappiano tutto. Non lo sanno i politici. Non lo sanno i giornalisti. Io credo non lo sappia davvero nessuno. Oggi, non possiamo neppure immaginare una spiaggia piena, una partita di calcio, un film con la gente che lo guarda in un cinema, il concerto di un cantante. Tutte cose normali, fino a poco fa. Chissà se soffre di più, di questa assenza, chi ai concerti e al cinema non ci andava, chi non ci poteva andare, chi non aveva i soldi per andarci, o gli altri. Gli altri che comunque cadono in piedi, con belle case, e soluzioni per sentirsi meno soli. Oggi – oggi che scrivo; ma poi passeranno altri giorni – è morta una ragazza di sedici anni. La più giovane vittima del virus. Un bel viso, come quasi tutte le ragazze così giovani. È morta a Parigi. Domani ce ne dimenticheremo, la notizia divorata da altre più recenti. Non se lo dimenticherà chi la ha amata. Io vivo questi giorni assurdi capitati all’umanità – forse gli ultimi, ancora non riusciamo a capirlo – come se Dio mi avesse dato l’occasione di smettere questa vita senza senso. Giorni fa dicevano che il virus era “una brutta influenza”. Poi hanno smesso. Poi altre parole d’ordine, presto dimenticate: amuchina, cinesi, Codogno. Ora – pochissimi giorni dopo – nessuno parla più di Codogno. E nessuno parla più dei cinesi, i poveri cinesi malati. Invece siamo noi, i cinesi malati. Altre parole d’ordine: uccide solo i vecchi, “3 patologie”, non colpisce i bambini. Tutte smentite. Vo Euganeo. Dimenticata, anche quella piccola cittadina sperduta nel Veneto. E gli autocarri militari che portano via i morti da Bergamo. Quale sarà l’immagine da copertina dei prossimi giorni? Gli aperitivi contro la paura. I musei aperti, contro la paura. E poi Zingaretti che si prende il virus. Salvini che prega la Madonna in televisione. L’Italia più gretta, più antica, più inerme verrebbe da dire, se non pensassi alle zanne di Salvini e dimenticassi quella parola. Lucia Bosé è morta, di questa malattia. E tanti altri, famosi e meno famosi. Sepulveda è un mistero da giorni e giorni. Come sta? Tom Hanks, invece, è guarito. E Pink è guarita. E i calciatori? Non se ne sa nulla. Dybala ha raccontato che non riusciva a respirare. È tutto impensabile. Sarebbe stato impensabile, quando a Capodanno ognuno di noi immaginava l’anno che iniziava, con i fuochi che si vedevano dalla finestra, con la gente che festeggiava dappertutto. E invece, questa cosa che non ha nome, questo pallino pieno di bitorzoli colorati, e la civiltà dell’uomo, quella di Socrate, di Platone, di Galileo, di Leonardo, di Einstein, di Gandhi, di Kubrick, di Gesù Cristo, incapace di difendersi. Incapace di difendersi da un essere che non è neppure un essere. Che non ha neppure una vita sua. È un filamento di Dna. Ci sono stati Fidia e Aristotele, Virgilio e Cesare, c’è stato San Francesco, ci sono stati Manzoni e la Peste raccontata come una cosa seppellita nel passato dei secoli, ci sono stati Raffaello e Magritte, Kandinskij e Mirò, Picasso e Frida Kahlo, Ejzensteijn e Orson Welles. E non siamo riusciti a trovare le contromisure a questa cosa, invisibile, ma che è in tutte le città d’Italia, in tutti i posti del mondo. Ci sono stati i generali, Napoleone e l’ammiraglio Nelson, Rommel la volpe del deserto e il generale Montgomery, Eisenhower e la bomba atomica, Bill Gates e Steve Jobs, “stay hungry, stay alive”, e Zuckerberg, e tutto questo mondo tecnologico e perfetto, che con un telefono puoi accendere il mondo, e controllare la vita di tutti con una app. Ci sono stati Mozart e prima di lui Bach, e prima di lui Monteverdi, e Haendel, Beethoven, Puccini, Arvo Part, Penderecki, i Rolling Stones e i Beatles, e questa bellissima storia è come se potesse essere cancellata da una cosa che non è nemmeno un essere vivente, e per vivere ha bisogno di rubare la vita a noi. Non siamo capaci di disegnare una difesa, nessuno ha ancora trovato la soluzione di questa equazione. Siamo tutti a trattenere il respiro, ad aspettare la Buona novella, tutti ad attraversare il deserto. Di questa malattia si parla anche poco. Si parla dei numeri, si commentano, è l’unico campionato che stiamo seguendo, queste Olimpiadi prima le vinceva la Cina, poi siamo passati in testa noi, poi adesso gli Stati Uniti. Ma noi siamo ancora sul podio, e per numero di morti non ci batte nessuno. E chiacchiere chiacchiere chiacchiere, il cui succo è che per non farci ammazzare l’unica soluzione è stare chiusi in casa, che difese non ne abbiamo. Stare chiusi, sperando che il virus non entri da nessuna porta, da nessuna finestra. Seguiamo i numeri, esultando se oggi ci sono duemilatrecento nuovi contagiati invece di duemilatrecentouno, se ci sono cinquecento morti invece di cinquecentotré. Ma poche sono le storie di chi si è ammalato, di chi è guarito. Pochi i racconti. Forse è giusto, chi l’ha avuta non ha voglia, né forza, per raccontare che cosa ha vissuto. Quello che abbiamo imparato è che di questa malattia si muore in pochi giorni, e si muore soli. Che, se si prende brutta, la discesa è rapida. Da una situazione in cui scriviamo, pensiamo, parliamo, guardiamo la televisione, a stare su un letto senza riuscire più a respirare, il cammino è veloce. Prima ti prende la solitudine. Poi il resto. Il resto è che ti manca l’aria. L’aria. La cosa che ci sembra così scontata, ovvia, dovuta. Come l’acqua corrente. Non immagini che possa mancare. E invece ti manca proprio quella. E poi scompari: scompari dagli umani, scompari come un appestato, neanche il diritto a un funerale. Tutti abbiamo paura. Tutti vogliamo non essere uno di quei numeri che ogni pomeriggio la protezione civile elenca alle 18, a un’Italia che aspetta di regolare l’orologio della propria ansia. Siamo tutti più o meno soli, e pronti a scannarci su Facebook per un’opinione o un’altra. Io vorrei fare qualche cosa di utile, di buono. Ma non ho risposte, non ne ho, e mentono gli scrittori che pretendono di averne, e intervengono in televisione, perché hanno vinto un premio letterario, e hanno da rivestire di parole poetiche la realtà. Io so solo che questa cosa ci ha messo di fronte alla morte, al pensiero della morte, all’eventualità della nostra morte, e alla possibilità – remota, ma non totalmente inesistente – della morte dell’umanità. Vorremmo sentire le due parole che contano adesso: cura e vaccino. E nell’attesa ci nascondiamo come topi nei nostri buchi. È tutto quello che siamo riusciti a fare, dopo secoli di civiltà, di arte, di tecnologia, di medicina. E lasciamo morire i vecchi nelle case di riposo, lasciamo che vadano a rischiare i medici, gli infermieri, i cassieri dei supermercati, i fattorini di Amazon, i postini, i vigili urbani, i poliziotti, i magazzinieri delle aziende alimentari, i ferrovieri. Chiudiamo gli occhi, e magari per sentirci bravi suoniamo la chitarra dal balcone. No, dopo i primi giorni hanno smesso anche qui. Ma noi abbiamo il privilegio di poter stare in casa. Altri no. Finché non toccherà anche a noi, forse, di dover mettere il naso fuori, di andare verso questa pioggia invisibile. Quando sono nato, quando ero bambino, sembrava che il tempo che vivevo fosse il più perfetto. Belle le automobili, molto più belle delle Seicento Fiat degli anni Sessanta. Molto più belli i programmi alla televisione di quelli in bianco e nero di pochi anni prima. Tutto sembrava perfetto, moderno, pronto per regalare la vita. La vita era una promessa, che non è stata mantenuta. Poi abbiamo visto l’Aids, un altro virus mortale, che non si vedeva: almeno c’era quella scusa, quella del “peccato”, a portare la morte. Il peccato del sesso, il peccato della omosessualità, quello della tossicodipendenza. I buoni, i puri, potevano sperare di farla franca. E intanto l’umanità si popolava di zombie che cadevano per strada, di ragazzi che finivano come scheletri, febbri e sarcoma di Kaposi, ce lo siamo quasi dimenticato. E gli anni ’80 venivano fermati in un freeze fotogramma dalla paura. Gli abbracci, il sesso, i grovigli di braccia e di capelli che da Woodstock in poi segnavano la giovinezza, l’essere “liberi”, diversi, rivoluzionari, adesso cominciavano a essere meno stretti. E poi abbiamo visto l’Undici settembre, quegli aerei che si infilavano nei grattacieli. E i metal detector agli aeroporti, ma anche al festival di cinema dove vado tutti gli anni, e il mio cognome negli Stati Uniti era già sospetto: “Bogani”, chissà da dove viene, forse dall’Iran, facciamolo uscire dalla fila e facciamolo spogliare tutto, se perde il volo pazienza. E altri attentati, nelle metropolitane, nelle piazze, sul lungomare di Nizza, la paura di essere in un luogo affollato, che la Morte venga a prenderti in un istante. Sembrava il tempo più facile, lontano dalla Seconda guerra mondiale, che per me erano solo i racconti dei miei genitori, come una storia forse vera, ma già lontana, una storia di cibi dai nomi orrendi mangiati per mesi: la lingua, i sanguinacci, il buristo, le bucce di patata, le croste di pane, e i rifugi dai bombardamenti, e Villa Triste dove avevano torturato il nonno; ma sembrava una storia passata, e la Guerra fredda quando siamo cresciuti noi sembrava già scolorita, si capiva che si sarebbe spenta. O almeno, lo speravamo. Sembrava il tempo più facile della storia dell’umanità, sembrava il periodo degli oggetti di plastica, di Sandokan in televisione e, poco prima, della Fiorentina che aveva vinto uno scudetto. Tutto sembrava possibile. E ora siamo infilati nel periodo più nero, più assurdo. Siamo a casa, con Internet e con Skype, con le dirette Facebook e le nostre canzoni su Youtube, ma là fuori si muore. E là fuori si è infranto tutto: i rapporti sociali, gli abbracci, il Parlamento che è vuoto, il concetto di Europa. La Messa, la Messa non c’è più, e neanche lo “scambiamoci il segno della pace”. Non si può scambiare. Il papa ha pregato da solo. E non ci sono neppure gruppi di fedeli nelle catacombe. Nessuno è così pazzo da stringersi in gruppo invocando la salvezza eterna, per nessuno la vita eterna è così certa o importante da mettere a rischio questa vita, certamente non eterna. E allora, anche il concetto di fede traballa un po’. Vivo da privilegiato nei miei pochi metri quadri. Sono un naufrago volontario, sono un viaggiatore in una stanza. Il cielo in una stanza, come cantava Gino Paoli. La mia casa sono due stanze, ma sono un milione di libri, e non va male. Prima di leggere tutti i libri che ho comprato, nel corso della mia vita, sarò comunque morto. Ho infiniti viaggi con la mente da fare, ho mille porti da raggiungere. Ma non so come aiutare le persone a cui voglio bene. Li sento al telefono, alcuni, ma sento che è troppo poco. Sento il battere della solitudine e della paura di alcuni di loro.Abbiamo imparato tutti a trattenere il respiro. Abbiamo imparato tutti a fare a meno di tante cose: una giornata al mare, uno dei festival di cinema che scandivano la mia vita, e in cui la vita sembrava in fondo una grande festa. Facciamo ancora fatica a capire che qualcosa si è spezzata. L’umanità ha addosso una malattia, come un cancro per il quale ancora non c’è la cura. Con un nome buffo, come fosse mascherato da Carnevale, “coronavirus”, che nome è? E invece non è uno, sono milioni, probabilmente miliardi nel mondo, sono un esercito di piccoli alieni nel corpo di chi è malato, sono – lo ha descritto uno che ha avuto la malattia – un bidone di sabbia gettato dentro i polmoni, dentro il respiro. Io prego Dio, se un dio c’è, di non provarlo, di non capirlo meglio di così, su di me. Ma se dovessi morire di questo, in questi giorni o chissà quando, spero di essere vissuto nella giustizia, e nell’amore. Spero di non aver fatto davvero del male a nessuno. Ci sono solo quattro persone, in tutta la mia vita, che non riesco a perdonare, per il male che mi hanno fatto. Dovessi vivere mille anni, non le perdonerò, e dovessero bruciare mille anni nell’inferno, non mi basterebbe. Fra qualche tempo, mesi o un anno, o un anno e mezzo, sarà solo una questione di trovare i medicamenti. Non so quando verrà, per me, il momento di avere paura. Forse non sarà a questo giro, e non so quando verrà. Avrò paura, spererò che sia possibile allontanare questo calice. E poi vedrò un ago infilarsi nella mia carne, una flebo, un letto. E me ne andrò, quietamente o piangendo. Non lo so. Penso solo a tutti quelli che, in questi giorni, stanno affrontando questa prova, e che il giorno prima sono usciti da casa loro, con il terrore di non rivederla mai più. Nelle trasmissioni televisive in questi giorni ci sono conduttori stanchi, spettinati, con il trucco più leggero, la pelle più pallida. Non ci sono applausi, non c’è pubblico in studio. Alcuni di loro sembrano farsi forza, sembrano chiedersi “ma dove sono andati tutti? Ma dove è finito quel gioco allegro che stavo giocando?”. Io sto guardando, adesso, un documentario di Michael Moore sul sistema sanitario americano. In America per curarti di una cosa qualunque, se non sei assicurato, puoi spendere una fortuna. Per farti riattaccare un dito tagliato, sono migliaia di dollari. E c’è chi viene lasciato in strada, perché non ha i soldi per farsi curare. Mi sento fortunato a essere nato in Italia. Dove, se stai male, provano a curarti. Dove ti curano se sei ricco o se sei povero: certo, se sei ricco qualche vantaggio ce l’hai. Ma non ti negano l’ingresso in ospedale, se non hai una carta di credito. Sto facendo una fatica terribile per lavorare. Ogni giorno è come se cercassi di aggrapparmi a una parete verticale, e non ho rampini da piantare nella roccia. È come stare in un mare senza pesci: e ogni giorno che passa mi sento inutile, incapace di tirar fuori dalla giornata il necessario per la vita, a cinquantasei anni, un’età in cui dovrei essere tranquillo, protetto da tutti gli anni di lavoro vissuti, Sono sicuro che è una situazione che vivono in molti. Ma sono comunque un privilegiato. Perché cerco di scalare questa parete verticale con un computer e un telefono, e non sono in una corsia di ospedale protetto solo da una mascherina. E penso a molti dei miei amici, che hanno la mia età o sono più grandi, e dalla vita ancora non hanno avuto niente. Non sarà per pochi giorni, questa cosa. E allora mi chiedo: riusciremo ad aiutarci? O vivremo ognuno per sé, dando spallate agli altri, come quelli che se ne stanno nei loro giardini ampi a gridare ai vecchini che passano, a due a due, che si fanno una piccola passeggiata intorno a casa, additandoli e dicendo “ora chiamo i carabinieri”? Daremo spallate per primi ai vecchi, lasciando che muoiano come se fossero morti meno dolorose? E se quest’onda dovesse ancora crescere, a chi daremo una spallata? Forse è questo film di Michael Moore che mi fa ancora più male. Ma ho così chiaro, nella mia mente, che non ci devono essere conti salati da pagare, per vivere. È già così costoso sopravvivere, ogni giorno. È già così costoso, in termini di dolore, di fatica, questo nostro troppo breve passaggio sulla terra. Alain Bombard era un medico francese. Non aveva neanche trent’anni quando vide un naufragio disastroso al largo di Boulogne, dove viveva. E scoprì che ogni anno duecentomila persone morivano in seguito a un naufragio. Disse a se stesso che non era possibile quella strage. Capì che la stragrande maggioranza dei naufraghi moriva di terrore, di disperazione, prima che di sete o di fame. E decise di attraversare l’Oceano atlantico in un canotto, senza viveri. Senza radio. Per vedere se sarebbe sopravvissuto alle onde, ai pescecani, alla sete e alla disperazione. Fu attaccato da un pescespada, bevve l’acqua dolce dei pesci che riusciva a pescare, prese a colpi di remo in testa gli squali, affrontò tempeste devastanti, ma alla fine ce la fece. Non morì di sete e di fame, non morì di disperazione. Arrivò dall’altra parte dell’oceano. Con un canotto di gomma. Noi siamo adesso nell’oceano, e non sappiamo quanto tempo ci staremo ancora. Alain Bombard insegnò a tutti i naufraghi che la paura si può vincere. Anche noi potremmo impararlo. Dio che probabilmente non ci sei, e che se ci sei ci mandi questa morte assurda con un piccolo pallino spugnoso, fai che il mondo rimanga un mondo di “noi”, e non di “io”. Che poi questo esserino non lo sa mica, di devastare l’umanità: vuole solo vivere, e anzi probabilmente non “sa” neppure di volerlo. Che assurdo: il mondo, l’umanità vinta da un non si sa cosa, un minuscolo filamento di acidi nucleici. Fuori nella strada è tutto silenzioso, come se ci fosse la neve. Non ci sono rumori, tutto è felpato. È la notte dell’umanità. Adesso è l’alba. Ma è ancora notte, e sarà notte per un bel po’. In questi giorni, tutti impariamo quanto sia piccola una giornata, quante poche cose ci stiano dentro. Prima avevamo mille scuse: il traffico, gli impegni non voluti, le mille rotture. Adesso siamo a casa, possiamo fare proprio quello che vogliamo. E facciamo così poco, riusciamo a scrivere solo poche righe della nostra vita, mentre immaginavamo di poter scrivere romanzi. Anche io non riesco a fare quasi niente. Cucinare una pasta, vedere un film alla tv, tentare una scalata alla parete e ridiscendere giù. Eppure potremmo fare tante cose: c’è un gran silenzio intorno, come non c’è mai stato. Penso a chi sente i sintomi addosso, e si sente crescere la paura. Paura di morire senza neanche un funerale. Paura di non respirare. Penso ai bambini che non capiscono perché quest’anno non si può uscire a giocare: chissà se, d’istinto, capiscono che non è il caso di piangere tanto, che non è il caso di fare capricci. Penso al mio amico Mirko, a cui devo gran parte dei libri che ho in casa. Lui lavora al supermercato, e fa un mercatino di libri che offre a cinquanta centesimi, per finanziare un’associazione di volontariato. E così, io sono diventato ricco di libri. Per tutta la vita, non me ne sono potuto permettere tanti. È un lusso che ho potuto vivere e godere soltanto da poco. E quei libri, li leggo, li accarezzo, li divoro una notte dopo l’altra. E ora ho paura per lui, che ogni giorno lavora fra la gente. E penso al mio amico oculista, che quando visita sta a pochi centimetri dalla faccia dei suoi pazienti. Aspettano il picco dei contagi, ma nessuno sa quanto salirà ancora questa marea. Un anno e mezzo, dicono, per un vaccino. Nessuno ha fatto ancora il conto di che cosa significherebbe, 500 giorni ancora con la gente che continua a morire. Cinquecento giorni come quelli che stiamo vivendo, non li potremmo sopportare. E prima o poi, ci sarebbe la rivolta nelle strade. Intanto finiscono i set a Hollywood, sono chiusi i cinema, i teatri, finisce quel “troppo pieno” di vita, di appuntamenti, di cose da acquistare, di pubblicità, di applausi nei programmi televisivi: tutto quel troppo pieno che ci ha bruciato la vita, il tempo, che ci ha condannati alla fretta, che ci ha fatto sentire tutti sempre in ritardo. Finisce la scuola, tutti promossi, nemmeno in tempo di guerra successe così. Chiudono le Olimpiadi, chiudono le spiagge. Se fossero 500 giorni di questa maratona, probabilmente cadremmo tutti lungo la corsa. Vedo ora il papa, in una chiesa disadorna, col pavimento di marmo lucido che sembra un obitorio. Celebra messa da solo, e c’è un nastro registrato con le voci dei fedeli e con le musiche. “Scambiatevi il segno della pace”, dice. E non c’è nessuno. Sembra essersene andato anche Dio. La Messa della fine del mondo. Penso a tutte le persone che ho lasciato uscire da questa porta, negli anni, e che adesso mi mancano. Oggi si apre una bellissima giornata di sole. E tutti noi viviamo piano piano, per non svegliare il destino. Si alza il sole, un bel sole di primavera, sul mondo. E io penso che si è infettato uno slum in India, dove ci sta un milione di persone ammassati gli uni accanto agli altri. E se questo virus prende l’Africa, le favelas di Rio di Janeiro o di Mumbai, o città di decine di milioni di abitanti come Dakar o Lagos o Nairobi o Il Cairo, è la fine. Oggi lo abbiamo capito: non sarà questione di giorni, non sarà solo la primavera, forse neppure solo l’estate. Non sarà chiusa, la questione, fino a quando non ci saranno cure e un vaccino. E quindi bisogna fare un gran respiro, e prendere un passo lungo da maratoneta. Dobbiamo pensare progetti belli, quelli che diano un senso a questo trattenere il respiro, a queste quattro mura che saranno il nostro orizzonte e il nostro pianeta. Voglio provare a fare di questo esilio qualcosa di bello. Ognuno di noi dovrebbe fare un progetto. Sarà una strada lenta, tutta in salita. Potremmo coltivare la nostra vita come un giardino prezioso. E poi, un giorno, usciremo di nuovo fuori. Certo, intanto potremmo scoprire che il nostro lavoro non esiste più. E finire tutte le bestemmie del mondo. Ma potremmo ricordarci di essere molto, molto fortunati. A non essere maneggiati da degli alieni con le maschere e tute da astronauti, come se fossimo capitati d’improvviso su Marte, con la paura di morire da soli. Non so se riuscirei a non aver paura, senza i miei oggetti, senza televisione, senza musica, senza chitarra, senza le persone che amo, con la compagnia solo della paura. La mia strada, intanto, giù, è come se fosse nel giorno di Ferragosto. Alcuni oggi usciranno, titubanti, in una strada deserta, incerti, come se non avessimo più il permesso di vivere. E ci sarà qualcuno dal balcone a farglielo pesare, anche se stanno andando a gettare la spazzatura. Ho aspettato per tanti anni di vivere. E la vita, adesso, è già dietro le spalle. Proprio ora, che pensavo di che avrei potuto vedere qualche angolo di mondo, qualche città, o tornare in quell’isola delle Ebridi che aveva quei ciuffi di erica, e il cielo così blu, quasi viola. Ma c’è chi, anche oggi, sta lasciando casa sua, i suoi oggetti, il suo mondo. E a quelle cose era attaccato, erano la sua difesa dalla solitudine; anche solo una tazza, a volte, può servire a proteggersi dal male. Le sue fotografie, le sue stoviglie, le sue pantofole. E invece esce di casa, e finisce in una stanza d’ospedale. Pensare che poco fa c’era Sanremo con Morgan e Bugo che si mandavano affanculo, l’Italia qualificata agli Europei, lo scudetto in una lotta a tre, per la prima volta da mille anni, un film coreano che vinceva agli Oscar: un film sull’arte di inventarsi un piano per sopravvivere. Zio Bong, trovaci un piano per sopravvivere ora. C’era stato il Leone d’oro a Joker, la sua New York disperata e la sua risata tragica. Quella New York è ora tutto il mondo. C’era il volto di Greta con il suo broncio ostinato, a dirci che era tutto sbagliato, tutto da rifare. Che la Terra stava urlando. Non so se c’entra qualcosa con quello che sta accadendo, ma a naso direi di sì. C’erano le elezioni in Emilia Romagna, l’Italia che è arrivata a due millimetri dal cambiare governo, e invece no. E non oso pensare se fosse successo, mentre già la tragedia era in viaggio. L’anno scorso ero a Istanbul insieme, camminavo lì all’ippodromo che era cantato da Guccini, e poi io più niente. Shomer ma mi Llaillah, a che punto è la notte? Non lo so a che punto è la notte. La mia notte è molto fonda, il suo silenzio mi ha tagliato la carne e i pensieri per mesi, ma non importa. Intanto, muoiono gli infermieri, muoiono i medici. E tutto quello che riesco a fare è postare una recensione a un film, o scrivere un’intervista. Potrei non esistere, e non cambierebbe niente. Stanotte ho sognato che ero su un ponte, sopra un lago. E dall’altra parte, sul monte, vedevo del fumo, dei rivoli di fumo. È una frana, e poi ce n’era un’altra vicina, e un’altra ancora. Sta cadendo il monte, sta cadendo nel lago. E l’acqua? Arriverà fino a noi, al ponte? No, di sicuro no. Ma mentre lo dicevo, vedevo il monte dalla mia parte fare gli stessi sbuffi di fumo, e staccarsi una parete di roccia. E capivo che sarebbe finita nel lago, che l’acqua sarebbe schizzata in alto, ci avrebbe travolti tutti. Capivo che saremmo tutti annegati, e mi preparavo a morire senza aver paura.