CRONACHE DAL FRONTE (PUNTATA N.31)

CRONACHE DAL FRONTE (PUNTATA N.31)

In un mese ho bruciato due macchinette da caffè. Le avevo dimenticate sul fornello. Ho anche rotto tre piatti e una tazzina, ho sbagliato una lavatrice – il rosso è un bel colore, ma non mi dona – ho macchiato un tappeto afghano a cui tenevo molto e lasciato marcire non so quante buste d’insalata in frigo. Eppure è da ormai 42 anni che mi gestisco la vita più o meno da solo e non sono mai stato un “bamboccione” – come avrebbe detto l’ex ministro Padoa Schioppa – visto che sono andato via di casa a 18 anni. E allora mi son detto, deve essere colpa del virus, che mi rallenta i pensieri e le azioni, che a volte mi tiene sospeso a mezz’aria e quando lascia la presa non so più dove sono e cosa devo fare. Di una cosa però posso vantarmi. Il mio apprendistato alla vita casalinga è stato dei migliori. E per una ragione semplice. Mi sono fatto le ossa da studente fuori sede, in una città e in un momento storico che non poteva essere più propizio. Ero a Bologna, nel 1977, l’anno del movimento più rivoluzionario che ci sia mai stato in Italia. Altro che il ’68. Quello puntava a cambiare la società, il ’77 invece ha cambiato noi che l’abbiamo fatto. Ed era nelle case un po’ disordinate ma accoglienti in cui si viveva che si esprimeva il meglio di quel movimento: la liberazione gioiosa del desiderio (anche sessuale, sì), la condivisione meticcia della vita e dei sogni, la costruzione di nuovi orizzonti mentali, senza più i filtri ideologici e i legacci della tradizione comunista e gruppettara. “Momenti di essere” li chiamerebbe Virginia Woolf, che ha colto come nessun altro quanto siano preziosi i ricordi. “Il passato è bello – racconta – perché nessuno riesce a rendersi conto dell’emozione quando accade. L’emozione si espande nel tempo. Non abbiamo delle emozioni complete nel presente, ma solo riguardo al passato”. Sono stati quegli anni a formarmi e a farmi scoprire chi volevo essere e come. Ho imparato anche a pulire casa, a cucinare e a rifarmi il letto, a stare piacevolmente in compagnia ma anche da solo con me stesso, senza per questo annoiarmi. Se non avessi poi fatto un sacco di viaggi in autostop dormendo spesso in un sacco a pelo, beh, diciamo che lavorare in zone di guerra mi sarebbe risultato certamente meno facile, meno naturale. Così come quel tipo di militanza politica fatta in quegli anni mi ha aiutato a capire che dare voce a chi non ha voce è molto più importante che mettersi in fila per intervistare i potenti di turno, che di voce ne hanno fin troppa. Sapevo che questa scelta non sarebbe stata un buon viatico per la mia carriera giornalistica. E così è stato. Ma non mi lamento, anzi, vorrei continuare a far l’inviato per tutta la vita. E’ un grande privilegio. E mi basta. Chiusa questa parentesi personale, penso che riuscire a sopravvivere alla cattività, anche lunga, sia tutta una questione di armonia. Sì, di armonia. Un’armonia interiore dannatamente delicata e complicata da preservare. L’ho imparato da chi è costretto a vivere da profugo, magari per anni e anni, chiuso in una squallida tenda blu dell’ONU, con solo i quattro stracci che è riuscito a portar via. Fossi al posto loro morirei, mi sono detto tante volte. E lo direste anche voi, credo. Loro invece resistono. Perché sono capaci di sfruttare al meglio i ricordi, di ancorare cioè il loro presente al passato, e così facendo lasciano uno spiraglio aperto per il futuro. Penso ai palestinesi e soprattutto ai siriani, che ne hanno viste di tutti i colori per colpa di un regime che ha le mani macchiate di sangue e marciscono da anni ai confini del loro Paese, sapendo di non poterci rientrare. Sono anni che entro nelle loro tende e resto sempre colpito dall’ordine e dalla pulizia che vi regna, dal senso dell’ospitalità che hanno mantenuto, dalla cura che hanno nel vestirsi, dal sorriso che esibiscono davanti al visitatore anche se hanno la morte nel cuore. Per me è la quintessenza della resilienza, che non è una virtù innata ma una vera e propria arte, che va coltivata giorno dopo giorno, sapendo che solo così si possono superare i momenti bui. E allora, mi dico: pazienza per le macchinette del caffè bruciate e per il bucato tutto rosso, pazienza per i momenti in cui non si sa più a quale santo votarsi, per lo sguardo che a volte si perde e per quei lunghi silenzi che fanno rumore dentro. Stiamo solo imparando. E anche sbagliare serve. P,S, In foto la mia moka nuova