LETTERE DA UN PAESE CHIUSO 51- I MORTI NON MUOIONO
E’ Pasquetta, e dovrei preoccuparmi per teatri e cinema che forse non apriranno prima di dicembre, e con posti distanziati ? Mi basta e avanza preoccuparmi per i prati che mi mancano, oggi, al cinema ci penserò più avanti. Però c’è un film -THE DEAD DON’T DIE – di Jim Jarmusch del 2019, forse il migliore del filone: un’ apocalisse zombie in un una piccola cittadina rurale. Non è il mio genere, e forse cesserà di essere un genere dopo quello che stiamo vivendo nella realtà. Ma se rovesciamo il concetto, è vero: nei piccoli paesi i morti non muoiono perché a ricordarli non sono solo i parenti e gli amici, ma un posto vuoto in un paesaggio che è famigliare a una comunità intera.Voglio qui ricordare quattro persone qualunque (una, a dir la verità, aveva scansato con cura la notorietà), che non conoscevo, ma che nonerano qualunque per la loro comunità. Non erano gli unici, ma ricordare loro valga come volontà di ricordare tutti. Non avrei potuto farlo senza il prezioso lavoro di cronisti locali, la faccia buona del giornalismo: Marco Zanetti, Tonino Zana, Stefano Bani. “Zio Gigi” aveva per nipoti quasi tutti gli abitanti di Levate, Bergamo. Per 58 anni ha gestito il bar nella piazza centrale, inevitabilmente piazza Roma. Inaugurazione nel 1962, e titolare è il fratello Alessandro, da cui il bar prende il nome. Ma pochi mesi dopo è Luigi Camillo Daminelli a subentrargli, e diventa subito zio Gigi. Anno dopo anno, dalle 13 alle 3 di notte, è il suo regno. Fino agli anni ’70 il bar è anche sala da ballo. Poi, anche sala da biliardo. Lui lo zio di tutti, allegro, nato per quel lavoro. Ha lavorato fino agli ottant’anni, e poi ha lasciato a un nipote, di cui era zio per davvero. Giuseppina Ferrari era sconosciuta alle cronache. Eppure era la moglie di Mino Martinazzoli, un politico diverso. La vedova era ospite , da quattro anni, di una RSA. Era nata nel marzo del 1930. Aveva conosciuto Martinazzoli a Orzinuovi, nella farmacia gestita dalla sorella Laura e si erano sposati nel 1960 , anno centenario dell’Unità d’Italia e delle Olimpiadi romane. Non avevano avuto figli, una coppia riservata che ha vissuto a lungo in una casa in cooperativa, a Mompiano, dietro lo stadio di Brescia. Una cooperativa della sinistra di base democristiana. Poi la coppia si spostò a Caionvico, in montagna. Dalle finestre di casa, oltre ai monti, si vedeva un piccolo camposanto. Si erano procurati un posto in quel cimitero, due loculi vicini. Lui, che era stato sindaco di Brescia e più volte ministro, si trovò a essere segretario della DC che stava finendo. E poi del Partito Popolare Italiano, che provava a rifondare la tradizione dell’impegno dei cattolici in politica. Le elezioni del 1994 non premiarono il tentativo. Il suo racconto di quel momento, in un’intervista a Sette, è un lucido epitaffio:«Non fummo tempestivi nel considerare che la fine del comunismo in Europa chiudeva, in Italia, una fase storica, quella della DC condannata a governare. Molti, apprendendo che non si trattava di una condanna all’ergastolo, diventarono malinconici e pretesero di replicare, artificialmente, un passato che non c’era più. Per me, io pensavo che se ci avessero assistito generosità e coraggio, avremmo potuto essere, nella nuova stagione politica, di più noi stessi, meno il nostro potere e di più il nostro progetto. Anche la scelta di evocare la sigla del Partito popolare di Sturzo, all’inizio del ‘94, si ispirava a quel proposito. Ma era ormai troppo tardi. Non fummo capaci, in un contesto sempre più reattivo, di convincere gli italiani che le nostre ragioni erano di più dei nostri torti.» Continuò nella politica attiva per un altro decennio, e con alterne fortune. Era una coppia, quella di Giuseppina e Mino, che aveva vissuto spesso divisa dalla politica, lei Brescia lui Roma. Gli ultimi anni li trascorsero insieme, in quella casa di montagna. Lui morì il 4 settembre del 2011. Per cinque anni a lei è bastato guardare alla finestra per vedere lui. Poi gli ultimi quattro anni nella casa di riposo. E adesso, insieme, in un cimiterino di montagna, riservato come loro.E’ morto in terraferma, nell’ospedale di Dolo. Angelo Schiavo, 90 anni, da un po’ di tempo era ospite di una casa di riposo a Sottomarina, accanto a Chioggia. Il 31 marzo era risultato positivo al Covid e trasferito all’ospedale. Gli Schiavon sono una famiglia nota, a San Pietro in Volta, sull’isola di Pellestrina (ci sono stato una volta sola, da bambino. Ero in colonia al Lido di Venezia e i miei vennero a trovarmi. Andammo in una trattoria di San Pietro in Volta, sotto un pergolato, e ricordo che mia madre prendeva in giro mio padre perchè aveva bevuto un bicchiere di vino in più e si era tolto la giacca, stava in maniche di camicia, era stata una domenica indimenticabile per me, solo per il fatto di essere una parentesi nella colonia). Gli Schiavon da metà Ottocento fino a trent’anni fa, di generazione in generazione, hanno condotto due cantieri, che qui chiamano squeri. Negli anni ’50 Angelo, maestro d’ascia, inventò la Sampierota, una barca buona per scivolare sopra le barene con il suo fondo piatto, e presto entrata nella tradizione lagunare. Una barca da pesca, robusta e stabile, al tempo in cui il motore erano le braccia. Il primo virus per il maestro d’ascia è stata la vetroresina: nel 1990 il cantiere chiude. Il secondo virus, il corona, se l’è portato via martedì 7 aprile. Attilio Riviera, 73 anni, aveva vissuto, praticamente, tutta la sua vita in una casa di riposo. Santa Maria del Castello, nel bresciano. C’era entrato nel 1968. Mentre il mondo cambiava, lui si era trovato lì dentro. Un ragazzone senza madre, con un padre da ricoverare, e con qualche problema psicofisico. Per più di vent’anni ha diviso la stanza con il padre , mancato nel 1991. Non era rimasto solo: una nipote lavorava lì, ma tutti gli volevano bene anche per via del sorriso largo e disarmato con cui salutava tutti. Il suo momento, il suo gioco, il suo rifugio erano i mattoncini Lego. Passava ore a costruire ponti, torri, animali, in silenzio e con impegno. Costruiva e ricominciava. Il Covid se l’è preso quasi senza che se ne accorgesse, e ha lasciato, come si dice, un buon ricordo tra tutti. Erano alberi, fragili o possenti, malconci o secolari, di un bosco che dava senso ai prati, ed è stato tagliato.
