LETTERE DA UN PAESE CHIUSO 52- IL CIELO SOPRA MILANO
Il giorno di Pasqua, nel tardo pomeriggio, sono sceso per portare il cane ai giardinetti del piazzale. Ma appena ho varcato il mio portone, al numero 43, ho visto che poche decine di metri più in là, davanti al 49, era ferma un’ambulanza con il lampeggiante blu acceso. Mi sono come immobilizzato, con la complicità del cane che doveva odorare qualcosa sul muro. Sul marciapiede c’era un uomo con la tuta arancione, e credo fosse l’autista. E un altro , l’infermiere o il dottore, che parlava al telefono, andando avanti e indietro. Ma era bardato di una tuta bianca, e da una visiera, e sembrava che anche i passi ne fossero impacciati, quasi meccanici. Una cosa è vederli in televisione, un’altra sottocasa. Ho fatto il giro largo, tanto il viale era deserto. E ho visto che la stessa cosa faceva un altro proprietario di cane: il contrario dell’autostrada, quando su una direzione di marcia c’è un incidente, e sull’altra si forma la coda perché tutti debbono vedere. Non so chi sia uscito da quella porta a vetri da cui entravano e uscivano gli uomini bianchi, e del resto a Milano non basta vivere a pochi numeri civici di distanza per essere vicini.Milano preoccupa: solo il giorno di Pasqua sono stati rilevati 412 contagi. E dunque contratti molto dopo che le misure di sicurezza sono entrate in vigore. Imprudenti, violatori delle distanze sociali ? No, forse contagi in famiglia, o in ascensore, o al supermercato. Forse, si vive tra i forse. Nel mio rapporto con i fondamentalisti islamici – ed è un mondo senza forse, che si alimenta di certezze – mi ha sempre colpito l’idea del Paradiso, e specie quello riservato ai martiri. Perché assomiglia, quanto a concretezza, a quel paradiso e a quell’Inferno da fumetti che io pensavo da bambini: diavoli e fiamme, e nuvolette come in una pubblicità del buon caffè. Nelle discussioni con persone pie ma fidate, con amici che potevano scuotere la testa ma non si offendevano, ho messo in dubbio più volte quelle visioni, e specie quelle del paradiso dei martiri, nel più alto dei cieli : un giardino dai frutti perenni, torrenti di latte e di miele, e settantadue vergini. Mi ricordo il mio autista Abu Shain quando entrò in confusione perché gli avevo chiesto chi aspettasse in paradiso la prima terrorista suicida, una ragazza: mi guardò e brontolò qualcosa che non ho capito. Però è vero che il Corano non parla di settantadue vergini, ma di fanciulle dallo sguardo modesto e dai bellissimi occhi. Però è vero che anch’io, quando penso ai miei genitori, guardo verso l’alto. Lo faccio più spesso, di questi tempi, per ricordare e raccogliere forze, per chiedere aiuto e pazienza, per domandare protezione, visto che con le difese immunitarie vado male. La sera, nel cielo miracolosamente sgombro della Milano deserta, guardo. La scorsa settimana, nella notte tra il 7 e l’8 c’è stata la Super Luna. Sembrava che avessero acceso davanti alle mie finestre un faretto di quelli che sui palcoscenici chiamano occhio di bue. E’ stata la notte in cui la luna è stata più vicina alla Terra, sembrava un agrume a portata di mano. Non lo facevo spesso, una volta, forse perché vivevo più di fretta, o avevo meno bisogno di alzare lo sguardo, interessato da altri sguardi, o da tutto ciò che è ad altezza d’uomo. Anche se ricordo come fosse adesso un cielo africano di tanti anni fa, a Tamanrasset, in fondo al deserto algerino. Mi distesi a terra e mi sembrò che mi avessero steso sopra, come un lenzuolo, una gigantesca carta blu identica a quella che da bambino usavo come fondale del presepio, una tempesta di stelle. A proposito di presepio: restai a testa all’insù anche nella cappella degli Scrovegni, a Padova. Dove buona parte degli affreschi di Giotto sono in alto, un torcicollo, perché non ti puoi distendere come nel deserto. E c’è la scena dell’arrivo dei Re Magi alla greppia del Bambino Gesù, guidati dalla stella cometa. Non è una stella cometa come quella dei nostri presepi da bambini. Tanto che si è pensato che per dipingerla Giotto si sia ispirato alla cometa di Halley, vista da lui in persona, in quegli anni poco dopo il Trecento.Poi ho cercato di imparare qualcosa, per merito di mio figlio. Che sin da piccolo si appassionò all’astronomia, pubblicando un blog sul tema, e spiegandomi cose che non avevo la pazienza di leggere. Mi ricordo ancora quella notte di agosto, in Val Bartolo, sopra Tarvisio, ospite con mio figlio ragazzino di una baita affollata di amici. Il cielo era uno sciame di stelle, e gli chiesi di spiegarcele. Vinse timidezza e riluttanza, e lo fece. Non so e fu più bella la descrizione del cielo o il mio sorriso orgoglioso di padre.Però non ho mai imparato niente, i nomi e le costellazioni. Mi sono limitato a guardare meno distrattamente il cielo, fossi in Afghanistan o in Cile, e a dimenticarmene. Tranne quella volta, a Pantelleria, quando, aiutato di nuovo da mio figlio, vidi nel telescopio – perché bisogna sapere dove cercare – Saturno e i suoi anelli. Per il resto guardo come se bastasse guardare, e non sapere. Mi succede così anche con le montagne, dove non sono quelle a me famigliari. Ad esempio in Lombardia, in rare mattine di orizzonti limpidi, e non so come si chiama quella montagna, e neanche quell’altra. Mi accontento, e del resto sono nomi che ha messo l’uomo, nel suo affanno di catalogare : nella notte dei tempi un uomo le avrà guardate come me, ed erano montagne senza nome. Così le stelle, e le costellazioni. Leggo la preziosa rubrica che ogni tanto Sergio Minoli tiene su Pantelleria News, il giornale on line dell’isola. E’ un cielo africano, quello, più che italiano, ma mi piace perdermi nel labirinto dei nomi. Adesso, ad aprile, stiamo passando dal cielo invernale a quello estivo, e sta per sparire Venere, però si può vedere Marte e, al mattino presto, Giove, il più luminoso dei pianeti. Delle costellazioni non chiedetemi, perché mi ci perdo. Mi devo fermare alla Luna, e non voglio citare Leopardi. Piuttosto Shakespeare, che con Otello attribuisce gli assassinii alla luna che si è fatta troppo grande e vicina. Quante leggende, dai licantropi ai lupi mannari, quante credenze fondate e no (dalla crescita degli ortaggi a quella dei capelli, ma qui lo dico per un amico), che hanno lasciato traccia nei nostri modi di dire: è un lunatico, ha la luna storta. Poco tempo fa, ma mi sembra passato un secolo, sono andato a Cagliari a intervistare qualcuno del team di Luna Rossa. Passione, impegno, caparbietà, in quei capannoni sul molo. E adesso mi chiedo dove saranno quei ragazzi, e se continuano, e se le regate si terranno o meno. E quando gli innamorati potranno guardare la luna senza distanze sociali. Una sola cosa so, e ve la dico alla fine.Guardo la luna e penso che mezzo secolo fa l’uomo è sbarcato lassù. E adesso non sa come fare per sbarazzarsi di un virus. Allora è più facile andare sulla luna, bisognerà cambiare i modi dire: cosa vuole, la luna, per dire che si pretende qualcosa di impossibile. Va detto che entrambi i fenomeni risvegliano i dietrologi: l’uomo non è mai sbarcato sulla luna, il virus non esiste, è una scusa per sbarcare nei nostri cervelli. Scuoto la testa, perché il cielo stellato dà un po’ di vertigine. Però mi tranquillizza, e penso che è il cielo che ha guardato Giotto, è il cielo che hanno guardato i soldati delle guerre mondiali, Il cielo che hanno guardato mio padre e mia madre, e il cielo che un giorno guarderà la mia nipotina, i nipoti dei discendenti di Giotto, dei soldati, di voi che state leggendo. Guardare in alto mi rasserena, in questa lunga notte deserta. Mi fa sentire piccolo, e parte di qualcosa di immenso, senza fine. Siamo formiche che si agitano, che se la prendono con Boris Johnson o con Angelo Borrelli, convinte che tutto abbia inizio da noi e fine con noi. E invece la vita e le lezioni che la vita ci impartisce, su quello che conta e quello che non conta, continuano, anche se noi siamo in castigo, dietro la lavagna. Adesso le lavagne sono appese al muro, non sono come quelle di una volta, dietro alle quali potevi sbirciare la classe. Però la prossima Super Luna, lo so, è il 7 maggio. Non credo che avremo molto da fare, quella sera. Ci si arriva, tranquilli. E la guarderemo anche per tutti quelli che non ci sono più, chiedendoci le volte in cui hanno alzato gli occhi al cielo, pregato o baciato, hanno congiunto le mani come facciamo noi per salutare, adesso, o hanno stretto un’altra mano, all’uscita dal ballo, o in due in bicicletta.
