LETTERE DA UN PAESE CHIUSO 55

Ieri mattina ho fatto un giro più lungo: il viale deserto che potevi attraversare anche con il rosso, dando semplicemente un’occhiata da una parte e dall’altra, mi ha tentato: noi pedoni siamo quasi una specie animale, basta poco per riappropriarci degli spazi. Ma non è stata una buona idea. Mi ero appena rallegrato perché davanti a un altro fornaio, non il mio, c’era un persona che chiedeva la carità, quasi un segno di riapertura della normalità, che ho visto, girato l’angolo, un cuscinetto di velluto su un portone, come usa a Milano, e lì accanto tre auto funebri. Un picco da cortile, o semplicemente si erano dati appuntamento lì, quegli uomini in abito scuro e cravatta ? Non lo so, ho girato largo, e in tempi di mascherine, non si chiedono informazioni a vanvera. Però ho pensato che dovrei scrivere meno di morti e più di vite, forse. Ma le guerre sono così, non sono fiere ottimiste e melense. Certo, uno può occuparsi delle guerre di tutti contro tutti, come il caso interessante di Ranieri Guerra, il consulente del governo che però c’ è anche direttore generale dell’Oms in quanto tale in conferenza stampa chiede conto al proprio governo sul massacro nelle RSA. Potrei occuparmi della pioggia sul bagnato, con la scossa di terremoto nel piacentino, altro che state a casa. O del non c’è un limite al peggio , di quella casa di riposo lager a Palermo dove non si moriva di Covid 19, ma si viveva tra maltrattamenti. Ma si può scrivere di morti, se serve a raccontare delle vite. Le storie di oggi sono di persone venute a mancare controtempo: non sono morti di Covid 19, ma sono morti in questo tempo sospeso senza funerali, senza addii, quasi sepolti in una fossa comune del dolore e dei rimpianti, sopraffatti da migliaia di altre morti. Tutte storie dolorose. Sono disuguali, ma nessuno di noi è uguale a un altro, ogni vita è unica. Ma una storia, l’ultima, mi procurava un groppo in gola. Prima storia. Giorgio Valenti, 71 anni il prossimo ottobre, viveva a Bianzano, ma era originario di Casazza, nella val Cavallina bergamasca. Nel paese d’origine era consigliere dell’Associazione alpini e volontario della Protezione civile. In paese tutti lo ricordano per l’allegria, per il vin brulè che preparava alle sagre, per le grigliate cui presiedeva alla rievocazione storica di agosto. E perché era ciarliero: “franguèl”, fringuello, il soprannome. Da camionista, aveva viaggiato in Medio Oriente, e aveva guidato mezzi pesanti nella colonna mobile degli alpini bergamaschi accorsa in Abruzzo dopo il terremoto. Pochi giorni fa aveva perso la madre, in una RSA della zona. No, lui non è stato portato via dal Covid 19. Ha reagito come si fa da queste parti: lavorando. L’hanno trovato il nipote e il cognato, riverso nell’orto, il decespugliatore accanto, per i lavori di primavera. Seconda storia. Gianni Mura, grande giornalista e grande personaggio. Lo leggevo, ma l’ho incontrato una sola volta. Abbiamo ricevuto insieme il premio Val di Sole,in Trentino, e la sera abbiamo cenato allo stesso tavolo, ed è stato un bell’incontro. Su di lui sono state scritte cose belle, ma nessuna uguaglia il pezzo definitivo che ha scritto Fabrizio Ravelli sul suo funerale, cimitero di Lambrate, tre persone presenti per una penna e un uomo molto amati. Non posso aggiungere altro. Se non ricordare che è mancato per un attacco cardiaco nell’ospedale di Senigallia, nelle Marche, dove era stato ricoverato per un malore. Era della classe del ’45, amava molto il Tour de France. Su La Repubblica teneva la rubrica domenicale “sette giorni di cattivi pensieri”. Su Il Venerdì si occupava di recensioni enogastronomiche. Il suo ricordo va bene anche per introdurre la terza storia. Terza storia. Era l’anno 1995. Gianni Mura voleva intervistarlo, e lui, il calciatore Ezio Vendrame, gli ha dato appuntamento al cimitero di Casarsa, il suo paese friulano. “Ci vediamo alla tomba di Pasolini. E’ la persona più viva che c’è da queste parti”. Ezio Vendrame è stato un calciatore capace di fermarsi, prendere il pallone in mano e andare in tribuna a salutare un poeta amico suo. Capace di dribblare gli avversari e i suoi, in un pareggio accomodante , di puntare la propria porta, e di fermarsi dopo aver fatto la finta di calciare. Non poteva fare strada, il suo non era calcio da pallone d’oro, ma da pallone rovente, o una bolla trasparente, croce e delizia. Una che danza sul pallone, quello che i giornalisti chiamano, noiosamente, un fantasista. Amava il calcio e le donne, i libri da leggere e i libri da scrivere, la chitarra e le poesie. La sua carriera : Udinese, Spal. Le donne non gli mancavano, ma a Ferrara si innamora di una prostituta, la chiama Regina, per lei salta gli allenamenti. E nonostante tutto arriva in serie A al Vicenza. Riuscirà a risultare immarcabile, a San Siro, nel 1972 , persino a Giacinto Facchetti. Nel 1974 riesce a comprarlo il Napoli. Lui pensa di fregare il direttore generale sparando un ingaggio doppio rispetto a quello di Vicenza, e lo accontentano subito. Scoprirà che un acquisto minore del Napoli prendeva tre volte quello che prendeva lui. Non era un calcolatore, e giocherà solo tre partite, troppo poche per restare nella memoria dei napoletani. Ma ovunque ha fatto innamorare, e dannare, tifosi e donne. L’anno dopo va al Padova, in serie C, ha ancora solo 28 anni. Da lì, solo calcio minore: “Mi piaceva il calcio, non fare il calciatore”. E poi allenatore, sempre nel calcio minore. Fino ai ragazzini della Sanvitese, vicino a Casarsa. Non sopporta le intemperanze dei genitori, molla e dice: “sogno di allenare una squadra di orfani”. Aveva sei anni quando finì in orfanatrofio. Se n’è andato il 4 aprile dopo una lunga lotta contro un tumore al pancreas. Non in ospedale ma nella sua casa di San Vendemiano, in provincia di Treviso. Quarta storia. Che stavolta inizia e finisce dalla parti di Treviso. Era uscito per fare benzina. Si può morire per un incidente stradale, al tempo delle strade vuote ? A Gino Favaretto, 88 anni, è successo. Stava uscendo dal distributore, quando la sua Panda, colpita da un’auto che arrivava, sulla Treviso-Mare, è finita fuori strada. Cause da accertare, dicono i carabinieri. Era un ex operaio tessile, e prima ancora era stato contadino. Grande e grosso, una risata contagiosa. “Amava pescare, suonare la fisarmonica, giocare a carte con gli amici” ricorda la nipote Tiziana. Dove doveva andare, direte voi. Aveva qualche problema di deambulazione, e anche per le piccole spese doveva usare l’auto, e avere il pieno era importante. Illeso il sessantatreenne alla guida dell’altro veicolo, andato distrutto. Gino Favaretto é morto subito, alle 8.45 del mattino. Ultima storia. Mi è già successo, di arrivare al funerale di qualche amico e di sentire qualche omelia che mi portava a pensare di aver sbagliato funerale. Spesso, era come andare a dare l’addio a un amico di grigliate e sentir rimpiangere un vegano, o un compagno di bevute celebrato come astemio. Quando ho pensato al mio funerale – e naturalmente non potevo mai immaginare che ci sarebbero stati funerali vuoti come quelli di questi giorni – mi sono sempre augurato di non venir descritto come non sono: che so, severo e missionario, oppure anche solo persona per bene e padre modello. Vorrei si dicesse la verità. Che ho amato la vita e i piaceri, che ho sofferto come tutti ma mi sono anche molto divertito, che ho avuto passioni e vizi eccetera. Quel ragionamento mi è tornato davanti alla lettura delle poche cose che sono state scritte in morte di Beppe Zaccaria, a Belgrado, pochi giorni fa. Tutte cose vere: per trent’anni inviato de La Stampa, gran conoscitore di cose balcaniche, colto e ironico. Ma non c’era quasi nulla del Beppe che ho conosciuto io. Giocatore di poker, buon fumatore e bevitore, elegante nel vestire e rapido nella battuta. Gran giornalista, sì. Ma re della pigrizia. Ci sono volte che non veniva al fronte – non per assenza di coraggio, quello non gli mancava – ma perché era restato a dormire. Che cosa succedeva ? Guardava la televisione, si metteva a scrivere. E siccome era una grande penna, scriveva pezzi migliori di quelli che avevano scarpi nato fino sul posto della notizia. So per certo di un’intervista inventata a un capo guerrigliero a Baghdad. Bene, era più credibile, più intelligente, più illuminante di tutte le interviste vere degli altri. Non era solo un narratore, perché era stato il primo a raccontare gli stupri etnici in Bosnia, e l’unico a intervistare Milosevic, uno degli ultimi inviati. Un suo libro sui crimini di guerra era diventato materiale di testimonianza per i giudici del Tribunale penale internazionale dell’Aja. Stava lavorando, come membro indicato dal governo serbo alla commissione dell’Onu sui crimini di guerra sulla Bosnia, qualcosa che somiglia alle Commissioni per la Verità di Nelson Mandela, indicato dal governo serbo, nel tentativo di arrivare auna memoria condivisa tra gli ex nemici. Aveva un passione per i serbi, e aveva finito per vivere a Belgrado (nella foto, lui che amava le belle scarpe e le belle camicie, sembra travestito da serbo). Come mai ? Sì, qualche donna, va bene. Ma secondo me Beppe, barese, trovava nei serbi qualcosa che gli assomigliava, quella capacità di giocarsi tutto, nella vita e al gioco. E forse c’era anche una nobile passione per i perdenti, un andare controcorrente rispetto alle bandiere. Una volta un collega lo minacciò, a Kabul, in modo quasi mafioso, per una notizia che poteva compromettere il rilascio di un sequestrato. Lui reagì con un sorriso disarmato e complice allo stesso tempo, e non era un tipo inerme, e fu impossibile non essere dalla sua parte. Sapeva esporre se stesso, le sue ragioni, far passare per ragione anche un torto, per verità una beffa. Anche in morte, il giorno di Pasqua. Lo hanno dato vittima di un ictus, o di un problema cardiocircolatorio. Ho letto il suo sms a una collega: Covid 19. Aveva 69 anni. Da ragazzo aveva giocato al calcio, portiere come me, numero 1, ai nostri tempi. Abbiamo parlato spesso di calcio, nelle sere di Gerusalemme o di Baghdad, ma mai di Ezio Vendrame, un numero 7. Quelle chiacchierate segnate dalle sue risate, e da quel tic per cui espirava dal naso, tra una frase e l’altra. Ecco come nascono i rimpianti.Non so l’alpino, né la vittima dell’incidente stradale. Ma di Mura, Vendrame e Zaccaria sospetto che, se il destino era quello di morire, non gli sia dispiaciuto di non morire di Covid 19, orgogliosi di fare sempre a modo loro.