CORONAVIRUS, ERRORI ALL’INIZIO DELL’EPIDEMIA
Il tempo dirà se potevamo evitarla, questa sottovalutazione del rischio da parte dei dirigenti, in quelle prime settimane in cui il contagio si è diffuso – E’ anche un meccanismo psicologico: tendiamo a rimuovere il pericolo, finchè ci sembra controllabile. Certo è che chi lavorava sul campo, a diretto contatto con le prime febbri e i primi corpi malati, il grido d’allarme lo lanciava già. ***La prima a farsi avanti è una operatrice socio-sanitaria. Il 10 marzo, allarmata, scrive una mail indirizzata al sindaco Beppe Sala. In sostanza, chiede aiuto. «Dal mese scorso alla Rsa comunale Virgilio Ferrari ci sono stati casi di febbri sospette, li hanno minimizzati o tenuti nascosti per non allarmare i parenti e il personale. Mi rivolgo a lei, primo cittadino». Succedeva in quasi tutte le case di riposo, in quelle prime settimane cruciali: i vertici rimuovevano l’idea di pericolo, ancora convinti di poterlo dominare. Continuava la lavoratrice: «Ho paura di contagiare la mia famiglia, siamo costretti a lavorare senza mascherine, né tute di protezione». Per tutta risposta la donna si vede recapitare una lettera di richiamo dalla cooperativa per cui lavora, la Proges (la stessa incaricata da Palazzo Marino anche per la gestione dell’hotel Michelangelo): «Quanto da lei affermato è falso e gravemente lesivo della nostra immagine, anche perché quella mail ha avuto ampia diffusione nell’ambito del Comune che si è, ovviamente, subito attivato per le verifiche del caso». Da quella prima denuncia altri ventuno lavoratori della stessa Rsa, poi risultati positivi al virus, prendono però coraggio. Risultato: un corposo esposto appena depositato in procura dal legale Francesco d’Andria. «Gli operatori con tosse e raffreddore, ma senza febbre, dovevano continuare a stare in corsia», si legge nell’atto. E «il 10 marzo, nonostante i plurimi avvisi in merito ai sintomi dei pazienti, gli operatori venivano invitati ad assisterli pur in assenza di protezioni. Dicevano che nessuno era stato accertato come Covid-19 e che era necessario non creare panico».Altri della Virgilio Ferrari con istanze simili, contrastate dalla cooperativa, si sono presentati da Gabriele Germano del Reboa Law firm. Ancora ieri mattina peraltro alcuni operatori della stessa casa di riposo riferivano: «Persino a chi lavora ai piani con ospiti febbricitanti e deve cambiarli o spostarli non viene fornita la visiera e le tute protettive solo a volte. Altri giorni dobbiamo lavorare con camici usa e getta che lasciano spifferi e il collo scoperto».Alla Rsa comunale di Famagosta, secondo diverse fonti interne concordanti, sarebbero morte più di ottanta persone su 230, con un terzo del personale a casa in malattia. Le salme, settimana scorsa, erano anche nella sala mensa. La figlia di una ospite ottantenne: «Mia madre racconta che l’hanno spostata per la terza volta e che le hanno portato via in un sacco nero la vicina di stanza». Una operatrice delle pulizie: «Il personale manca. Dobbiamo fare il lavoro dell’operatrice socio sanitaria, lavare i pazienti e imboccarli, anche quelli con la febbre. Ma ancora non ci danno i Dpi adatti. Forse sono troppo cari. La tensione è insostenibile».Alla «Gerosa Brichetto» di via Mecenate hanno iniziato a fare i tamponi: «Su venti, quindici sono positivi – dice la rappresentante del comitato parenti Adriana Gaviraghi -. Alcuni ospiti sono stati spostati più volte e i parenti sanno della febbre solo all’ultimo. Quando finirà questa moria?».
