LE STORIE DELLA QUARANTENA: NINO IL PESCATORE E IL 25 APRILE
Faceva freddo lì in montagna. Lui non era abituato a quel freddo. Penetrava nelle ossa. Persino i pesanti calzettoni di lana che indossava sotto gli stivaloni sembravano filati addirittura con la neve. Si ripeteva : ognuno nel suo ambiente, ognuno nel suo ambiente deve stare.Quanti mesi erano passati? Uno? Due? Cosa ci faceva un pescatore calabrese, un ” bagnarotu” ( di Bagnara, nota cittadina dedita alla pesca in provincia di Reggio Calabria) sulle colline emiliane? Se lo chiedeva spesso. Quando la paura, il freddo prendevano il sopravvento in quelle nebbiose giornate padane, in quelle fredde colline emiliane, in quelle anguste grotte o nelle cascine isolate a cercare un po’ di pane. La fame, la fame era la stessa. Da nord a sud, da sud a nord. A volte i crampi rumorosi del suo stomaco borbottante, spesso urlante, superavano i battiti del suo cuore. Nino, u bagnarotu. Il pescatore. Cosa ci faceva insieme a quei ragazzi come lui, lontano dal suo mare, a imbracciare un fucile? Loro venivano dai colli vicini, dalla pianura, dal fiume. Conoscevano le frasi che si scambiavano in quei dialetti che spesso avevano spruzzi di francese. Lui che non li capiva, che stentava a parlare persino l’italiano. Lui sapeva imbracciare solo l’arpione, che tante volte aveva avuto mano ferma a uccidere il signore del suo mare. Xiphias lo chiamavano gli antichi, pesce spada i ricchi che pagavano la prelibata preda. Nelle notti nascosto nella grotta, avvolto nella sua incerata fredda ripensava agli spazi liberi, alla feluca dal palo alto e dalla lunga prua. All’azzurro del suo mare e alla sinuosa forma del pesce che nuotava a pelo d’acqua. Sul palo alto, l’uomo seduto sulla torretta l’avvistava. “- Uccidilo! Uccidilo! – E Nino non falliva. Un colpo solo. Micidiale. L’arpione rubava la vita al fiero animale. Le acque, prima azzurre, si tingevano di rosso. Esultava felice. Quella morte era vita per lui e la sua famiglia. Poi le bombe. La guerra. Troppo giovane negli anni del suo inizio. Le braccia dei fratelli a lasciare le reti e a servire la Patria indossando la divisa dei soldati regolari. Due ne aveva pianti la madre, mai più tornati. Soldati. Fascisti. Senza sapere per quale idea andare a morire. E quegli occhi belli di una donna un tempo sorridente anche negli stenti, lentamente si erano offuscati per il dolore. Vent’ anni e dirle:- Mamma, parto anche io–La guerra sta finendo, figlio mio….perche’ anche tu, vuoi dirmi addio?-– Mamma, devo andare , sento in me ardere una fiamma-– Figlio mio, non partire, in Italia , adesso, è tutto un dramma-– Mamma voglio lottare anche io per la libertà-– Figlio, non mi lasciare, pensa a me e a questa tua giovane eta’- Era partito di mattina presto. Senza un saluto, senza indossare una divisa. Senza ordini. Solo coi sogni che gli aveva regalato il mare, quel bisogno innato della Libertà. Aveva trovato quei suoi compagni, forse era stato il vento, forse il destino, forse l’odore di salsedine misto a rosmarino. Si era fermato per riposare. Poi per ascoltare. Infine per dire a quella gente dall’accento strano: -sono qui per aiutare, per combattere o morire- E in quelle lunghe, fredde notti , tutti fratelli e le storie di quel pesce nemico- amico, riscaldava le loro paure. Non era più l’arpione, era un fucile adesso che stringeva fra le mani. Sparava spesso e pure con precisione. Nessuna gioia, nessuna esultanza. Spara o muori. Spara o muori. E non guardava mai quegli occhi spalancati o chiusi a chiedere a lui il senso della guerra. Andava avanti, nel cuore solo il sogno della Libertà. Che prezzo aveva! Lo capiva adesso che tanta innocenza aveva perso. Adesso che era come il suo pesce spada, braccato, inseguito, una preda da stanare, un sacrificio umano da immolare. Faceva freddo, il suo compagno batteva i denti. O erano i suoi? Quella mattina alla radio un proclama.“Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire.”(Sandro Pertini proclama lo sciopero generale, Milano, 25 aprile 1945 cfr Wikipedia)’ Adesso erano lì. Pronti. Avevano accerchiato il nemico. Fascisti. Soldati. Giovani come lui dentro una cascina. Preoccupati, spaventati come lui. Indossavano una divisa italiana. Parlavano la sua lingua. Chissà se ce n’era qualcuno calabrese. Non voleva saperlo. Non voleva saperlo. Se lo avesse ignorato avrebbe sparato meglio. Un ordine silenzioso. In piedi. Un attimo. La Vita. La Morte. Che ingiusto duello! 25 aprile. Lo ricordava sempre, Nino il pescatore. La fine della dittatura. La Liberazione.Anche da vecchio, piangendo davanti alla bandiera, diceva sempre ai figli e ai suoi nipoti:- a quale prezzo, a quale prezzo- Chiudeva gli occhi e lacrime scendevano giù giù su gote segnate dalle rughe, solchi di salmastro, di fiume, di colline, di paure. Solo il mare conosceva quel suo segreto amaro. Mentre sparava per la Libertà, una voce flebile di un antico amico, divenuto soldato fascista, diceva nel loro dialetto:- Ninu, propriu tu?- ( Nino proprio tu)
