IMPOSSIBILITÀ DEL VIAGGIO. NOTE A MARGINE DI UN SAGGIO DI MICHEL ONFRAY

Abbiamo tutti un amico che ci ha lasciato sconvolti quando, di ritorno da un altro continente, è stato capace di dire soltanto “Carino!”. È paradossale, ma proprio nell’epoca della globalizzazione e dei voli low-cost, il viaggio è morto, perché è morto il viaggiatore. Fatta eccezione per alcune pagine in cui precipita in un antipatico filosofese esibizionista, su questo tema ha parecchio da dirci Michel Onfray, nel suo “Filosofia del viaggio. Poetica della geografia”, 2017, Ponte alle Grazie. Titolo originale “Théorie du voyage: poétique de la géographie”. A partire dalle riflessioni contenute in questo piccolo libretto di 113 pagine, in cui il filosofo francese condensa le sue numerose esperienze di viaggio, è possibile tratteggiare in modo dettagliato il profilo antropologico dell’uomo occidentale contemporaneo, che è, da ogni punto di vista, il contrario di quel che dovrebbe essere per poter essere un vero viaggiatore. Il viaggiatore comincia a viaggiare molto prima di partire, con la mente, attraverso letture che innescano l’immaginazione, attraverso ricerche che delineano possibili percorsi.L’uomo occidentale contemporaneo parte in modo impulsivo, legge in qua e in là una guida turistica qualsiasi in aereo e, una volta approdato in un Paese di cui non sa nulla, cede persino all’ambizione assurda e innaturale di poter cogliere, da qualche piccolo accadimento, l’essenza di una civiltà lontana anni luce dalla sua. Il viaggiatore ha l’attitudine del poeta: una volta partito sa mettere in standby quel ricco e complesso groviglio di pensieri e di aspettative da cui il viaggio è scaturito, per abbandonarsi al caso, alla percezione, per immergersi in quella realtà sconosciuta a partire dalla centralità del corpo e dell’intuizione.L’uomo occidentale contemporaneo è un timido pianificatore, incapace di improvvisare e di staccarsi da quelle due o tre cose che crede di sapere, strutturalmente inadatto a vivere la poesia della sopresa in quanto semplice cercatore di conferme disarmato di curiosità. Il viaggiatore ha la capacità di aprirsi a mondi mentali altri senza cercare di comprenderli a partire dalle categorie della sua cultura.L’uomo occidentale contemporaneo non solo è mentalmente chiuso: è a tutt’oggi imbevuto della cultura cristiana del missionario. È ancora, più o meno consapevolmente, un evangelizzatore, un civilizzatore. Il viaggiatore ha sempre un amico con cui partire, perché nel momento in cui ci si allontana da tutti i propri punti di riferimento, ci si trova nudi di fronte alla propria fragilità e l’animale che è in noi, per riuscire a non chiudersi, necessita di rassicurazione, condivisione, complicità e sostegno. Essere in due ti salva dall’eccesso di incognite. Essere in due ti salva dal sospetto delle autorità, che in tanti Paesi guardano con diffidenza il viaggiatore solitario. Essere in due ti salva dalla comunione forzata con altre persone solo perché anch’esse solitarie e in viaggio.L’uomo occidentale contemporaneo è invece azzoppato da una cultura che non ama l’amicizia, ne ha paura, la vede come una minaccia alle appartenenze di ordinanza. Nell’Occidente cristianizzato la vera amicizia è relegata alla prima giovinezza. Un uomo di cinquantanni che, condividendo con un amico la passione per la lingua portoghese e per la poesia di Pessoa, decide di andare un mese in Portogallo con quell’amico, è un poco di buono che trascura la famiglia, è chiaro che Pessoa e il portoghese sono solo una copertura, è evidente che in realtà cerca un’occasione per tradire la moglie (se invece va sempre in vacanza con la moglie da vent’anni nello stesso posto e da dieci anni la tradisce nella pausa pranzo con una collega, tutto ok). Ti vedo, lettrice che aggrotti le sopracciglia: “Ma il Tizio in Portogallo non ci può andare con la moglie?”. Sì, potrebbe. Ma non: dovrebbe. Piccole sfumature che cambiano tutto. Dice Michel a p. 42:Nell’ambito della coppia domandiamo ormai all’altro di interpretare l’insieme dei ruoli affettivi, compreso quello di confidente e di compagno. Forse non è poi una grande idea, questo totalitario domandare. Forse crea una pressione un filino eccessiva. Io non ho niente contro i viaggi in coppia, si direbbe però che a Michel siano riusciti meglio i viaggi con gli amici:Laddove l’amore appare fragile, l’amicizia conosce una forza autentica, indifferente e indipendente dai tormenti amorosi. Partire con il proprio amico offre la certezza di andare incontro a piaceri adamantini(p. 44). Io che una volta ho avuto la folle idea di viaggiare in coppia dentro a un gruppo, su una cosa sono d’accordo al 100% con Michel:Siano maledetti i gruppi, desiderosi di aggregarci alla loro indesiderabile comunità(p. 42). Riscoprire il senso del viaggio come rituale di libertà e di amicizia. L’amicizia fabbrica il viaggio, il viaggio fabbrica l’amicizia. Riscoprire il viaggio come esercizio spirituale pagano di scoperta e di autoconoscenza. Essere consapevoli che nessuna pandemia potrà mai cancellare il viaggio dall’orizzonte umano. Chiunque abbia fatto almeno una volta un vero viaggio, sa che tornerà a viaggiare. Leggiamo a p. 73: Se stessi, questa è la grande questione del viaggio. Se stessi e nient’altro. Cosa posso apprendere e scoprire su di me, se cambio i miei luoghi abituali, i miei punti di riferimento e modifico le mie preferenze? Cosa resta della mia identità dopo la soppressione dei legami sociali, comunitari, tribali, quando mi ritrovo solo, o quasi, in un ambiente se non ostile, perlomeno inquietante, disorientante e angosciante?. Probabilmente, in questa nuova epoca che si apre con la fine della globalizzazione, viaggiare sarà difficoltoso, ma tornerà ad avere un senso.