‘ANNI DI PIOMBO’, MII-SERIE DEDICATA AL TERRORISMO INTERNAZIONALE ANNI 70-95

‘ANNI DI PIOMBO’, MII-SERIE DEDICATA AL TERRORISMO INTERNAZIONALE ANNI 70-95

L’attentatoreErano dei lupi solitari. Ma solo in apparenza, perché alle spalle c’era il branco: i servizi segreti arabi e le rispettive organizzazioni. A volte gruppi piccoli, bene addestrati. Che hanno allungato la vita ai predatori. Questa è la storia di uno di loro.Khalid al Jawari, giordano-palestinese, sbarca all’inizio del 1973 al JFK di New York. Arriva con l’ormai noto viaggio tortuoso per depistare eventuali segugi. Beirut, Montreal, Boston, infine la Grande Mela. Usa un altro nome – al Jassem -, soggiorna in alberghi in città e nel New Jersey, e, ripetendo un metodo operativo, consolidato cerca compagnia femminile. La trova in Carol, mamma-single di un bimbo. Passano del tempo insieme, quasi come una famiglia. Lui è sempre elegante, fisico asciutto, sfoggia dei baffi. Vuol far credere di essere quello che non è, ha altro per la testa e molto da nascondere: quelle passeggiate servono per raccogliere dati su possibili bersagli in vista di attacchi terroristici. Un profilo che rivedremo spesso in numerosi attacchi, con la donna – a volte inconsapevole – che fa da schermo.Il 4 marzo del 1973 la premier israeliana Golda Meir è a New York e Jassem. ha preparato la sorpresa: tre autobombe che devono esplodere lungo la Quinta Strada e all’aeroporto. Costruisce gli ordigni usando esplosivo al plastico Semtex e, su una vettura, ricorre ad un tipo di detonatore particolare. Deve essere un colpo clamoroso e invece è un flop perché il meccanismo non funziona. Il palestinese telefona all’amica dall’albergo Skyway, a poche centinaia di metri dal terminal El Al e le dice che deve partire per una ragione improvvisa.Ll’FBI lancia una grande indagine partendo dai molti indizi. All’interno dei mezzi volantini di Settembre Nero, i meccanismi esplosivi, le similitudini tecniche con le lettere-bomba spedite dalla fazione contro diversi target israeliani e americani, le ricevute dei noleggi e altre carte dove poter analizzare la calligrafia. Mesi dopo nella stanza di un motel usato da Jawari scoprono un passaporto giordano falsificato, è incollato con il nastro adesivo dietro un condizionatore. Infine le intercettazioni dell’NSA che portano a contatti tra l’uomo e funzionari iracheni. Hanno molto in mano, meno che il presunto attentatore, in fuga fin da quel 4 marzo.Il palestinese è svanito nella “nebbia” mediorientale. Ogni tanto arrivano delle segnalazioni, insieme a centinaia di altre, nulla che possa aiutare a scoprire dove sia. E’ il caso a farlo riemergere. La polizia tedesca, nel 1979, ferma per una vettura per un controllo: a bordo, insieme ad altre persone, c’è una persona che dice di chiamarsi Sejaan ma in realtà si tratta del fuggiasco. Nel bagaglio della vettura ci soni esplosivi, timer, 9 passaporti e un radio in grado di captare le comunicazioni aeree. Finisce in prigione? No. Lo lasciano andare, rispettando un copione abituale in Europa.Gli americani continuano la loro caccia, ritengono che il ricercato viva in Libano, il paese devastato dal conflitto civile è il letto caldo e accogliente per molti militanti. La mattina del 25 ottobre 1980 esce la notizia che a Beirut hanno cercato di uccidere un guerrigliero, Abu Walid al Iraqi e attribuiscono l’imboscata “a forze note per i loro legami con il nemico sionista”. Al Iraqi potrebbe, in realtà, essere il nome di battaglia di al Jawari. La conferma che Abu Walid non è uno qualsiasi, è la stessa Olp è a definirlo responsabile della sezione tecnica della “sicurezza unificata”, divisione a lungo guidata dal dirigente palestinese Abu Iyad, una delle figure più in vista dell’apparato di sicurezza del movimento di Arafat. Il misterioso Abu Walid vive ancora per un po’ nel territorio libanese, quindi si sposta a Cipro con un incarico ufficiale e una missione speciale. Sull’isola – sostengono gli Usa – assume una nuova identità, ha un lavoro di copertura. L’Fbi apre tutte le antenne, mobilita gli informatori, spera di beccarlo, ma la preda sfugge ancora e trova un nascondiglio in Iraq, ospite del regime di Saddam. Lì nessuno può andare a prenderlo, l’unica speranza è che lasci il “santuario” oppure devono attirarlo in una trappola. E’ il destino a decidere.Il 14 gennaio 1991 Abu Iyad è assassinato a Tunisi e Abu Walid, alias al Jawari, vuole partecipare al funerale. Mette la testa fuori della tana, non senza complicazioni. All’inizio dell’anno si è spostato in Giordania per procurarsi un documenti puliti intestati a Khaled el Jassem – e secondo alcuni fonti – si è mosso poi tra Larnaca e Atene. Il suo itinerario successivo prevede uno scalo a Roma per poi raggiungere la capitale tunisina in tempo per le esequie di Abu Iyad. Chissà, forse al Jawari ha già fatto quel viaggio, non teme nulla. La polizia italiana, invece, lo ferma su richiesta statunitense. Manette usate in un momento particolare. Siamo in piena crisi del Golfo, Roma sta valutando se espellere un plotone di diplomatici iracheni, c’è grande fermento negli apparati di sicurezza e sul fronte diplomatico. Inizierà una trattativa riservata. Washington lo vuole ad ogni costo, Roma frena per timori di rappresaglie. Sono già arrivate delle minacce dirette, pressioni dirette, a volte segrete che hanno spesso indotto gli europei ad abbassare la testa. Il tira e molla si conclude il 12 aprile del 1992, quando il palestinese è estradato. Un gesto apprezzato dalla Casa Bianca.L’ospite è consegnato agli Stati Uniti e finisce sotto processo. I suoi legali contestano le prove esibite, mettono in dubbio i riconoscimenti dei testimoni, insistono su pasticci a proposito di alcune impronte, affermano che non è un terrorista di ma bensì un alto funzionario amministrativo dell’Olp, insistono sulla innocenza, combattono con ogni mezzo. L’accusato aggiunge: “Sono El Jassem, sposato e con 5 figli, residente a Cipro…Mi hanno incastrato”. La difesa si rivela vana, lo condannano a 30 anni, lo richiudono anche nella temuta prigione di SuperMax, in Colorado. Il detenuto è rilasciato nel 2009 ed espulso, verso il Sudan. Per la Giustizia statunitense ha pagato il suo conto e le sue colpe. Ora è un uomo libero.La sua partenza è accompagnata da nuove supposizioni, un ex investigatore FBI non esclude che al Jawari possa aver avuto un ruolo nell’attentato del settembre 1974 contro il jet TWA 841 precipitato nello Ionio, oltre 80 vittime (ne ho parlato nella prima puntata). Lui affiderà la risposta ai legali pronti a proclamarne l’innocenza più completa. Difesa irrobustita dalla mancanza di prove sul legame tra al Jawari e la strage dell’aereo, uno dei molti misteri del terrorismo internazionale.# Fonti: documenti processuali Usa; ricostruzione dell’Associated Press che ha avuto accesso a materiale declassificato; mio archivio. Foto da archivio Corriere.