3 “T” PER LA FASE 2: CE LA FAREMO?

3 “T” PER LA FASE 2: CE LA FAREMO?

Ultimamente m’è capitato più volte di dire, fra il serio ed il faceto, che questa fase due la vedo proprio male; l’ho anche paragonata alla fase due delle mie diete, quindi direi che la vedo malissimo.Vorrei però spiegare un po meglio il perché.L’impressione è che in Italia la fase due sia iniziata, non tanto perché fossimo pronti, quanto perché non se ne poteva più fare a meno: i canti sui balconi alle 18 erano ormai lontanissimi ricordi e le persone iniziavano realmente a pensare che non valesse più la pena stare chiusi in casa e morire di fame (perché oggettivamente per molti il problema concreto era questo) -apro un discorso a parte un secondo: per l’italia nel suo complesso abbiamo deciso che, per quanto economicamente problematico, bisognava chiudere tutto per tutelare la salute pubblica. A Taranto (situazione analoga), no. Chiuso discorso.Il vero problema adesso però è che, al di là dei numeri in calo, stiamo approcciando questa fase due con la stessa preparazione e consapevolezza di un cieco che attraversa l’autostrada. Ulteriori ondate di malattia sono date quasi per certe, ma è altrettanto certo che la violenza di queste ondate dipenderà da come ciascuna comunità saprà affrontarle.In un articolo su T.P.I., Vespignani fa una analisi lucidissima della situazione: per poter riaprire servono le 3 T, ovvero Testare, Tracciare, Trattare, altrimenti il rischio di un disastro è concreto.Noi come siamo messi?1)Testare. Ad eccezione di alcune realtà locali (tipo il Veneto), i numeri dei test sono ancora limitati, tant’è che la stima è di un numero di positivi reali nell’ordine delle dieci volte superiore a quello ufficiale (essere fuori di un fattore 10 è come non avere dati ufficiali – se chiedi indicazioni per un posto e ti dicono che è ad un chilometro quindi decidi di andare a piedi, e poi te ne devi fare 10, qualche pensiero cattivo verso chi ti ha dato l’indicazione parte automatico). Ieri sera, in una trasmissione televisiva,  Pierpaolo Sileri diceva che sono in consegna 5 milioni di tamponi, ottimo, no? Peccato che in trasmissione fosse presente il virologo Crisanti (il consulente della regione veneto che da subito ha spinto per fare test a tappeto), il quale ha fatto notare che quel numero faceva riferimento ai soli “bastoncini” per raccogliere i campioni, ma che siamo praticamente con pochissimi reagenti e quindi non serviranno a molto. Per tanto, troppo tempo, si è limitato il numero dei test perché non si era in grado di gestirne la risposta, un po come chi non sale sulla bilancia per non sapere quanti chili ha preso (ma i chili li ha presi comunque). In definitiva, ad ora non c’è un quadro numerico affidabile e i dati italiani sono considerati di difficile interpretazione o meno per chiunque. Per tracciare seriamente servono due cose: una ausilio tecnologico che aiuti a ricostruire la catena dei contatti (la famigerata app) e una “divisione” di tracciatori che effettui quella ricostruzione. La app doveva essere già partita, ma inizierà la sperimentazione a fine mese e, comunque sarà solo volontaria perché (e qui ci sono colpe anche nostre, intesi come collettività), siamo tutti talmente preoccupati della nostra privacy da non capire nemmeno come dovrebbe funzionare e a cosa servirà. Non stiamo parlando di una malattia trasmissibile sessualmente come l’HIV, in cui puoi andare dal paziente e chiedere con chi abbia avuto rapporti, con ragionevole aspettativa che se li ricordi. Stiamo parlando di qualcosa che si trasmette per via aerea, per esempio usando i mezzi pubblici e fra persone assolutamente sconosciute che, per mille motivi, si trovano a condividere i medesimi spazi per qualche momento. Senza una app (che per inciso non traccerebbe i movimenti, ma terrebbe semplicemente nota dei codici associati ai dispositivi bluetooth con cui entriamo in prossimità – tranquilli potremo continuare ad andare da amanti e tutto il resto), un tracciamento in questi termini sarebbe impossibile.Oltre alla app servono i tracciatori: persone che ricostruiscono i contatti e vanno fisicamente da loro per fare i tamponi, evitando che siano questi a doversi spostare. Abbiamo i tracciatori adesso? no, nemmeno l’ombra. Almeno nel trattare saremo pur messi bene, in fondo di esperienza ne abbiamo accumulata, no? no. Faccio una domanda: le regioni del sud che, per questo giro, se la sono scampata, nel frattempo stanno costruendo terapie intensive a nastro per essere pronte in caso di seconda ondata? Direi di no. mancano i soldi? ok, intanto però 37 miliardi di MES incondizionato per le spese sanitarie non li vogliamo usare.Il problema però non è solo questo: trattare non significa solo avere terapie intensive. Trattare significa avere una gestione con flussi totalmente separati fra pazienti covid e non covid, significa avere luoghi dove far fare la quarantena a pazienti positivi, anche a sintomatici, non costringendoli a stare a casa ad infettare i propri familiari visto che la principale fonte di contagio resta la casa domestica. E’ stato fatto? no. Non si vedono, ad esempio, alberghi (che tanto sono a zero lavoro), utilizzati per ospitare positivi asintomatici o con sintomatologia lieve, dove quotidianamente vengano testati e monitorati. Ecco, noi saremmo doviti arrivare il famoso 4 maggio con queste 3 “T” pronte o, quantomeno, “inbound” (termine aeronautico per dire in avvicinamento) e, invece, siamo immersi in discussioni, riunioni, impedimenti burocratici, come fossimo in una qualsiasi conferenza dei servizi per decidere se dare o no l’autorizzazione ad un termo valorizzatore.A tutti questi problemi, oggettivamente derivanti da poca organizzazione, si aggiunge quello relativo alla poca consapevolezza nell’opinione pubblica o, almeno, in parte di essa.Viviamo quotidianamente fra orde di complottasti, nutriti a pane e Youtube, che contestano vaccini, applicazioni, 5G, Bill Gates e qualsiasi cosa o persona venga presa di mira da qualsiasi video o MEME con la valenza scientifica e probatoria di un b movie catastrofista.Oltre a questo, si mescolano situazioni oggettivamente difficili, legate alla necessità di circolare e di riavviare le attività commerciali, insieme ad una certa superficialità nel considerare il problema alle spalle. Peraltro, se questo è sbagliato, ma almeno comprensibile nel meccanismo in alcune regioni oggettivamente meno colpite e che non hanno vissuto il dramma e la paura in maniera diretta, è del tutto incomprensibile, ad esempio, a Milano ed in Lombardia, rimasta ancora oggi la zona più preoccupante d’Italia con, da sola, la metà dei contagi e dei morti giornalieri nazionali. Vedere oggi immagini di affollamenti sui navigli è veramente preoccupante ed incomprensibile.Quello che ci stiamo giocando, la posta in gioco, non è cosa da poco: probabilmente non saremmo in grado di sostenere economicamente un secondo look down completo e prolungato il cui prezzo sarebbe insostenibile. Quindi,, se la nostra ripartenza non dovesse essere cauta e ragionata e se il virus dovesse diffondersi nuovamente con una ondata simile o peggiore della prima, probabilmente, saremo costretti a valutare quella via che BJ aveva pronosticato per gli inglesi (salvo poi cambiare rotta): continuare a produrre facendo morire i più deboli, avendo peraltro sprecato i sacrifici di questi due mesi.