BUON COMPLEANNO, MAMMA

Buon compleanno, mamma. Ti piacerebbero queste rondini che fischiano adesso, fuori alla mia finestra. O forse no, non ti interessavano tanto, ero sempre io a insistere perché tu ti affacciassi al alcone per guardarle sfrecciare nel cortile mentre di fronte lo spicchio di cielo che ci era dato di vedere trascolorava dal rosso al viola. Beh, se puoi sentirmi da qualche parte, ora che sei parte del rosso e del viola, del cielo e delle rondini, buon compleanno. Qui la vita sta più nei ricordi che nel presente. Non lo avrei mai immaginato. Per esempio ora sento la Sinfonia numero 40 di Mozart. Tu non lo sai, tu non te lo ricordi, tu non ci avevi fatto caso. Ma col vecchio giradischi Lesa, quello da settantamila lire, io la ascoltavo all’infinito. E così l’Eroica di Beethoven, e le Quattro stagioni di Vivaldi. Roba facile, certo. In salotto, sul divano rosa salmone che ti piaceva tanto. E speravo tanto di imparare un sacco di cose, di imparare come funzionava la musica, e di elevare la mia anima. Questa cosa dell’anima secondo me l’ho presa da te. Perché anche a te piacevano le cose che elevavano l’anima. Il cinema no, non ti è mai piaciuto. Anche la settimana scorsa, la settimana scorsa di un anno fa, ti dicevo “ma ti porto al cinema: vuoi venire con me? Entri gratis”. Te lo dicevo per scherzo, sapevo che non ci saresti venuta. Ti dava noia agli occhi, il cinema. Ma anche in televisione, i film non li vedevi mai. Vedevi “Un posto al sole”, ma perché quello ti piaceva e i film no? Che droga ci mettevano dentro, a quelle scene di vita quotidiana che ti tenevano inchiodata alla televisione alle otto e mezza, che quasi non avevi voglia di rispondermi al telefono, anche se poi dopo un secondo non ci pensavi più, e la aspettavi da tutto il giorno la telefonata, e accidenti a me che non ci pensavo, che alle otto e mezza guardavi “Un posto al sole”. La televisione è stata la tua vita, negli ultimi anni è stata tutta la tua poca vita. E come te, forse, lo è per milioni di altre persone. E forse lo è già un po’ anche per me. Non ho fatto molto in questo anno. Mi dispiace, mamma. Non ho messo a posto casa tua, non ho scritto delle cose belle su di te. Sono rimasto come in attesa. Di che cosa? Di qualcuno che mi desse di nuovo voglia di vivere, di fare. Di costruire qualcosa. Sono rimasto ad aspettare, ad invecchiare. A non fare tesoro di niente di quello che mi avevi dato. Mi hai dato una casa dove stare, e io che credevo che fosse niente, che fosse scontato, capisco che non lo è affatto. Io però volevo un po’ di tempo, ancora un po’ di tempo con te. Speravo che quel tempo si dilatasse all’infinito. Invece finisce tutto, prima che vi si riesca a porre rimedio. Sarà stato il 1976 o il 1977, ascoltavo musica classica in quel salotto, e poi Burt Bacharach che credevo fosse tanto bravo, e i dischi di classica costavano poco, tremila lire, chissà che orchestre erano. Ma volevo conoscerle tutte, le sinfonie di Beethoven, la Pastorale, la Quinta, l’Eroica, e pensavo che ognuna celasse dei segreti. E quella sinfonia di Mozart, quando entra l’oboe e canta straziato, e poi il flauto traverso e poi tutti i violini e sono disperati, per un momento è come se tutto il mondo si piegasse all’ingiù, poi tutto ritorna tranquillo. Lo capivo io, a tredici anni? Mi sa che non capisco molto di più, adesso, sulla musica. Quanti dischi. Sono tutti su in soffitta, ancora. Quanta vita. È tutta da queste parti, in queste piccole stanze. Solo che non c’è più niente, di quella vita. Ci sono i dischi, ci sono le cassette, ci sono le mie canzoni scritte quando avevo vent’anni, che nessuno ha ascoltato. Ci sono tutte le volte che mi hai aperto la porta di casa tua. Ci sono tutte le volte che stavi, sempre più leggera, seduta sulla poltrona davanti alla televisione. E le volte che stavi seduta in cucina. E tutte le volte che portavi in salotto il pranzo. Quei pranzi che non avrò mai più. Forse in paradiso, se il paradiso esiste. E quanto ci siamo incazzati, mamma. Quanto ti ho fatto incazzare. Io che credevo sempre che tu piangessi per farmi del male, per farmi sentire in colpa, per esibire il tuo dolore. E forse un po’ lo facevi anche per questo. Ma io dovevo provare a farti ridere, non a farti piangere. E invece non si apriva neanche lo spumante a Natale. A proposito, fra poco è Pasqua, che dici, andiamo dai fratelli Briganti a mangiare? No, eh, non ne hai voglia, di andare fin laggiù, saranno anche trecento metri. Va bene, stiamo a casa. Arrivo io, verso l’una e mezza. Ma che sia l’una e mezza, dici tu. Sì, dai, ci provo, faccio di tutto. E veramente metto la sveglia per arrivare in tempo, e mi faccio il caffè all’una e un quarto, tanto caffè per farmi venire fame. E il risultato è che arrivo nervoso come Sgarbi nelle trasmissioni. Ti piacque tanto, quando scrissi “le polemichine di Sgarbi” in un articolo. Pensavi, dentro di te, che per una volta avessi fatto la voce grossa. Pensavi, chissà, che se me lo avevano lasciato scrivere, avevo qualche potere. Macché, mamma. È che Sgarbi non legge i miei articoli, non li ha mai letti. E magari avrei dovuto raccontarti di quando è venuto ospite al mio festival, e ha fatto a cazzotti con uno del pubblico, e io mi sono messo in mezzo, sul palco, a dividerli, e sembrava un film comico degli anni Venti, con Charlot e il poliziotto e le botte sulla testa, se non che era intervenuto il suo autista, sai, uno che sembrava Mike Tyson, e si era messo a picchiare anche lui, e poi un amico dello spettatore che però aveva una gamba ingessata, e insomma eravamo in minoranza, e a me sembrava di sognare, lì sul palco di un festival a tenere Sgarbi per le spalle mentre urlava “Comunista! Pezzodimerda! Stalin! Ceaucescu! Fidelcastro!” allo spettatore, e forse anche a me. Ti saresti spaventata, se te lo avessi raccontato. Ti spaventavi di tutto. E l’ultima volta che ti suonai il pianoforte. Beh, te lo ricordi che battevi anche la mano quasi a tempo? Chissà che canzoni ho cantato. Chissà chi c’era. Perché non sono mai riuscito a suonare solo per te. Non sono riuscito a trovare la calma, il coraggio, la pazienza di farti ascoltare qualcosa solo a te, di spiegarti perché la suonavo così, che cosa era, che significato aveva quella canzone. Magari ti sarebbero anche piaciute un po’ di più, invece non ti piaceva mai niente. E guarda, domani pomeriggio se torno dalla registrazione di Cinematografo mi metto a suonare il pianoforte. Ovvia. Il tuo pianoforte, a casa tua. Che non so ancora che cosa farci, di quella casa in cui tutto parla di te. In cui sembra che tu debba tornare da un momento all’altro. E domani sera sai che cosa faccio? Metto nel computer le tue due “interviste”. Tu non lo sai, ma avrei voluto fare un film su di te. Solo che pensavo che ci fosse tanto, tanto tempo per farlo. E invece di tempo non ce n’è. Come non c’è tempo neanche per tirare una Madonna, dicevi tu. E poi lo sai che cosa faccio? Ogni tanto, in tutti questi giorni di merda che ci saranno, vado a casa tua e comincio a scrivere lì. Non mi sono mai reso conto di quante parole strane, diverse da quelle che dicevano le altre persone della tua età e del tuo mondo, tu usassi. “Parbleu”. Chi altri diceva “parbleu” fra le tue amiche? Ti piaceva usare qualche parola strana, chissà se sapevi come si scrivesse. Blu lo pronunciavi “bleu”, alla francese, e lo scrivevi “blé”. Vivevi in un mondo di parole francesi. Le patate non erano bollite e schiacciate, erano “mascé”. Ti sembrava più elegante che dire “schiacciate” con la forchetta, e poi mescolate a un po’ di burro. Pensavi fosse francese, anche se era inglese: mashed potatoes.E così, da piccolo ho mangiato, e ho odiato, le patate mascé. Ma le ho mangiate zitto. E ora le faccio, invece, cuocio degli ignobili buglioni di patate lesse che poi sbuccio e mangio, da solo, con il sale e l’olio. A te non piaceva l’olio, ti piaceva più il burro. Più delicato, più gentile. Burro, e non margarina. Solo per pochi anni comprammo la margarina, quando diventò di moda. Erano gli anni ’70, sembrava una cosa “moderna”. Poi sei tornata al burro. Anche nella pasta, ci mettevi il burro. Chissà quanti grassi saturi abbiamo mangiato, tu, papà ed io. E magari sono quelli che hanno provocato gli emboli finali a papà e a te. Ma chi lo sa, se sarebbe stato meglio un tumore, a scartavetrarti la vita uno strato dopo l’altro, fino a renderti un nulla straziato, fino a cancellarti un millimetro dopo l’altro. Il burro, gli spaghettini cotti trecento volte il tempo di cottura indicato, tanto tanto sugo. Siamo andati avanti così, io e papà, e io facevo da mangiare il giorno, alle due. Quando tornavate dal lavoro, ero io che ero tornato da scuola, avevo fatto la spesa, avevo apparecchiato, forse avevo cucinato. O forse no? Cucinavi tu? Boh. Non siamo mai stati tanto bravi, nessuno dei tre, in cucina. Però papà ci teneva. Quando faceva la pasta lui, chiedeva “com’è?” dopo sette nanosecondi da quando avevo preso in mano la forchetta. Era così ingenuo, papà. Era un bambino, in tutto. E faceva tenerezza come i bambini, con il suo orgoglio che si feriva così facilmente, come una pelle troppo sottile. Papà che – lo sai che me lo ricordo persino, mamma? – che andò giù in strada a raccogliere il ciuccio che avevo buttato dalla finestra, a due anni. Io mi ricordo che avevo un ciuccio bianco e uno azzurro. Non so come, ma me lo ricordo. E mi ricordo dove era il mio lettino, e mi ricordo dove è sempre stato il vostro lettone. Mi ricordo che mi sembrava normale, a tre anni, dormire dove eravate voi. E dovevo essere già miope, perché non vedevo se avevate gli occhi aperti o chiusi. Un bel ciechino dovevo essere. Ti piaceva la bougainvillea. Altro francesismo. Non mi ero mai reso conto di quanto ti piacessero le parole francesi. La bougainvillea che riempiva i muri bianchi con i suoi fiori viola, lì a Tonfano, in quella veranda che fu, per una stagione soltanto, la nostra idea di felicità. Ci arrivaste in macchina, forse. O forse già in pullman. Ed era il 1969, dopo l’incidente che avevi avuto nel giugno. Già. Altro che sbarco sulla Luna. Tu, papà, eri finito in un burrone, e in quel burrone c’era finita la tua Bianchina che amavi tanto, e tutti i tuoi sogni. Quello di fare carriera. Quello di andare in giro con la macchina ancora a lungo. Scoprirono che eri malato, che era un miracolo che tu avessi guidato così a lungo. Come forse scopriranno di me, quando vedranno che non ci vedo. E via la patente, via la macchina. Via l’insegnamento in quella scuola che probabilmente amavi tanto, come se tu ti fossi scopato una studentessa. E invece è solo che tremavi, e facevi fatica a camminare. Gli studenti vennero a trovarti, all’ospedale. Ma io non so più i loro nomi, le loro facce. E nemmeno loro probabilmente si ricordano più niente, se sono nati intorno al 1950 adesso hanno quasi settant’anni. I tuoi ragazzi ora hanno settant’anni. Comunque, mi sa che lo sbarco sulla Luna non te lo sei goduto. O l’incidente lo facesti dopo? Come potrei fare a saperlo?? Forse esiste ancora qualche parente. Forse. E quel settembre, che il sole già calava sull’estate, andammo al mare. E trovaste quella pensione con la veranda sul mare già quasi vuoto. Villa Erika, si chiamava. E vi piacque subito. A te, mamma, piaceva che il signore che la gestiva sapesse quattro lingue. E poi quando chiese che vino prendevate, tu mamma avesti un lampo di entusiasmo, di gioia per l’ignoto, dicendo “proviamo il vino bianco?”. E da allora fu vino bianco, più elegante, più estivo. Compraste vino bianco anche a casa, per anni. Per poi tornare al rosso per altri vent’anni. O forse sono tutte cose che ho immaginato io. Ma il vino bianco frizzante servito lì, sulla veranda che guardava il mare, io sono sicuro che per te è stato uno scampolo di felicità. E tu papà parlavi con un signore scozzese massiccio, e parlavate in quella strana lingua. Tu che leggevi i libri in inglese, papà. Ora sono io che lo faccio, ti ho imitato senza neanche rendermene conto. La bougainvillea. Che poi ritrovammo a Capri. Te la ricordi? No, non ti ricordi. Le ultime volte che andavi al mare ti facevi portare in taxi. E io mi incazzavo, perché spendevi un occhio della testa. Ma non ce la facevi ad andare in treno, e io non ti aiutavo. Cazzo, potevo prendere la macchina, e imparare a guidare, e portarti al mare, anche solo a vedere la Passeggiata di Viareggio, quella specie di pavimento di cucina lungo quattro chilometri che ti piaceva tanto, la versione piastrellata della Croisette di Cannes, magari la spiaggia era anche più larga, ma la gente tanto più meschina, la mentalità tanto più stretta. Per quanto anche a Cannes, te li raccomando. Tutti a pensare solo alle feste, nessuno che rispetti il cinema, tutti a pensare a uscire la sera fino alle due, in locali dove tutto costa un cazzo di giornata mia di lavoro, pezzi di merda che non ci badano a spendere, e io non una sola volta mi sono divertito, non una sola volta mi sono ubriacato, bel pezzo di bischero che sono. Cannes di merda, dove l’unica cosa che ho fatto è stata sempre lavorare, martellare su questa tastiera pensando di trovare il senso della vita nei film, e di raccontarlo ad altri a cui non importa un cazzo niente di quello che penso io. Qualche film lo hai visto. Uno, a metà degli anni ’70, in cui c’era una ragazza pazza. Che diceva ai genitori “io sto bene, tu come stai?” e sembrava che stesse bene, finalmente. Poi ripeteva “io sto bene, tu come stai?”, e ancora un’altra volta, e un’altra ancora. E capivi che no, non era guarita, che era pazza per sempre. E ti colpì tanto quella scena, e anche a me. Che anche a pochi anni, capivo. Capivo l’orrore di quella cosa. Che quello che sembra che vada bene, poi scopri che è un disastro. I film che ho visto da piccolo, mamma, ma come erano sfigati? Quella ragazza pazza, giovane, magra, biondina, mi sembra. Che rassicurava i genitori, o meglio ripeteva come un carillon vuoto la stessa frase, come una bambola meccanica. Capii che la mente si può scardinare, si può spezzare. Come successe a Nora, la tua cugina raffinata, che suonava il violino e che finì pazza, rinchiusa in un istituto psichiatrico, e poi liberata quando era l’ombra di se stessa, piena di umiliazione. Quanto siamo stati umiliati, nella nostra famiglia, dalla tua parte per la vergogna di sentirsi sbagliati, di sentirsi storti nella mente. E da parte di papà, per la vergogna di essere stati presi a mazzate dal destino, e non muoversi più come gli altri, come tutti gli altri che ti guardano con senso di superiorità, come se stare bene fosse un merito, e una ricchezza, e quelli che non ce l’hanno vanno guardati come i miserabili, come i pezzenti, i poveri di salute, umanità di serie B o serie Z. E siamo tutti così, alla fin fine. Ma che film vedevamo, comunque. Che film tremendi. Tu non te li ricordi. Ma “L’automobile” con Anna Magnani, forse l’ultimo film che lei fece. Tutti i sacrifici che faceva per comprare una Cinquecento, e poi gliela rubavano, o gliela distruggevano, e forse non c’erano le assicurazioni come adesso. E io a pensare che quando lotti tanto per conquistare una cosa, poi il destino te la toglie. E certo è così. Non c’è altro da fare. L’ultima cosa che il destino ti toglie, è quella che non ti puoi tenere all’infinito. Come io speravo della tua vita. Speravo che, zitta zitta, oggi tu stessi per compiere novantatré anni, come io sto per compierne cinquantatré. E poi declinare pianino pianino, e io a cantarti un po’ di canzoni. Perché sai la cosa che non ho mai avuto il coraggio di dirti, mamma? Che ho capito proprio negli ultimi mesi che tu ragionavi, nonostante tutto, come me. Che tu eri come me. Che tu ragionavi con lo stesso respiro mio, con lo stesso punto di vista mio. Se solo tu avessi sentito meglio, invece di farmi sempre ripetere perché le frequenze medie ti sfuggivano. Il senso delle cose che dicevo non ti sfuggiva mai. Non conoscevi le parole che usavo io, se ti spiegavo i canali della televisione facevi fatica. Ma se ti avessi spiegato la mia vita, l’avresti capita. Va be’, mamma. Festeggiamo anche così. Io qui, tu lì. Che tanto, anche essere qui non è troppo diverso. Non mi sembra di vivere poi tanto. Che cosa bevi? C’è questo vino buono, che viene dal Salento. Ti sarebbe piaciuto. Rosso, forte, corposo. Avresti detto “questo mi ubriaca”, però un po’ ne avresti mandato giù. Con contegno, facendo finta di non volerlo proprio, ma l’avresti sentita la differenza con i cartocci di merda che compravi. E da te, nell’armadio, ci sono ancora i succhi di arancia che facevi comprare per me. Quando arrivavo tardi, tardi per tutto, anche per il supermercato, passavo da te. E sapevo che un succo d’arancia c’era. E non compravi quelli Coop che costavano meno, compravi i Santal che io non compro mai, perché costano di più. E te ne rubavo sempre uno o due, e te lo dicevo, “ti rubo un succo di arancia”, e tu mi dicevi “ma che dici? Sono per te, lo sai”, e con questa specie di cerimonia tutta nostra io me ne andavo, sempre di corsa, che cazzo c’avevo da fare per correre sempre? Che poi si corre, e alla fine a nessuno importa un cazzo se hai corso tanto, perché non hai vinto nessuna medaglia. E allora tanto valeva stare un po’ di più con te. E vale anche adesso, stare un po’ di più con te, questa sera. Beviamo un po’ di quel vino, e mangiamo un po’ di quelle Fiesta che sono rimaste lì da te, le “brioscine”, le chiamavi, ti piacevano perché dentro c’è qualche microgrammo di rum, ne sono sicuro. E dai, facciamo festa ora, alle due e quarantanove di notte, stiamo un po’ a chiacchierare, che ti racconto la mia vita storta e scomposta come una frattura della tibia, e ti racconto quello che non ho fatto in questo anno, le canzoni che non ho cantato, i concerti che non ho fatto, le donne che non mi hanno amato, i bambini che non ho avuto, i successi che non ho ottenuto, le parole che non ho trovato, le note che non ho suonato, i posti che non ho visitato. “E a Pasqua?”. Non ti preoccupare, a Pasqua vengo, all’una e mezza circa. Ma non preparare tanto da mangiare, che a quell’ora non ho fame. Dai che se ce la fai ti porto a fare una passeggiatina… Ma come “no”? Dai, forza. Si va fino al Poggetto. “E’ in salita…” ma dai! Si va piano piano, e poi a tornare è in discesa. Fidati che ce la fai. Che poi quando sei lì vedi un bambino, e ti illumini, ti fanno tenerezza i bambini, e diventi la nonna che non ti ho mai concesso di essere. Perdonami, se puoi, anche di questo.