TROMBONI

TROMBONI

TROMBONIMario Vargas Llosa è un po’ come Bernard Henri Lèvy. Il francese è il bardo dell’interventismo democratico; leggi delle guerre per la difesa dei diritti umani. Il peruviano, a partire dalla sua polemica contro Gabriel Garcia Marquez, ce l’ha a morte con la sinistra latino americana e contro la sinistra in generale.Oggi, l’interventismo democratico, visti i risultati, non è più alla moda. Ma c’è il coronavirus; e c’è anche l’indubbia tentazione di governi, di per sé autoritari, di cogliere l’occasione per opprimere sempre più i governati. Una pratica in atto, sotto i nostri occhi, in un’infinità di paesi.Quanto basta al Nostro, per lanciare al mondo intero, la sua denuncia e il suo appello. Peraltro affetto da un inguaribile strabismo. Mario punta infatti il dito contro Cuba, Nicaragua e Venezuela (e questo era scontato) per arrivare poi, udite udite, alla povera Argentina di Fernandez e alla Spagna di Sanchez, di nulla colpevoli se non di lockdown. Una vera e propria canagliata intellettuale, o più esattamente, una marchetta pagata per avere la firma di Aznar e Macrì. Ma ancora peggio è il fermarsi lì: avendo davanti agli occhi l’Ecuador di Moreno, il Cile di Pinera, la Bolivia di Anez e, soprattutto, il Brasile di Bolsonaro. Paesi che sono indubbiamente tirannici; ma che hanno, agli occhi di Vargas Llosa, il valore sacrale di essere anche liberisti. Ci mancava solo che scrivesse: ”la sinistra è il virus”; ma l’avrà sicuramente pensato.EUROPA, SOVRANISTI ED EUROPEISTILa crisi da coronavirus ha provocato un’infinità di disastri. Ma avuto l’indubbio merito di sbarazzarci da due insopportabili categorie di politici: gli europeisti senza se e senza ma; e i sovranisti alla Salvini.Cominciamo dai primi. Per tener presente che si può appoggiare senza riserve qualcosa che esiste. Mentre l’Europa dell’austerità e delle sue regole non esiste più o, come si dice pudicamente, è stata “sospesa”, in attesa di un “ritorno alla normalità” che nessuno può veramente credere che si possa verificare.E, allora, l’Europa torna ad essere quella descritta da Lombardi circa sessant’anni fa: uno spazio politico che andava occupato questa volta sì senza riserve; perché sarebbe stato, da allora in poi, il luogo deputato di un confronto politico decisivo e per le sorti del nostro paese e per l’evoluzione del quadro internazionale.Così stando le cose, da adesso in poi, non si potrà parlare di “più Europa” ma di “quale Europa”.Più Europa è uno slogan a un tempo ingannevole e stupido. Ingannevole perché ci propone maggiori dosi dell’Europa che c’è; pur sapendo che questa cura è diventata, da oggi in poi, assolutamente improponibile. Stupida perché continua a pensare che un’Europa sovranazionale, basata sul primato dell’economia sulla politica e dell’efficienza sulla solidarietà, si possa ancora costruire, un gradino per volta e nelle segrete stanze, e nel silenzio assenso del resto del mondo.“Quale Europa”, invece, non è uno slogan. Ma un problema da affrontare al più presto; se non altro per iniziativa di quanti ritengono improponibile il vecchio ordine. Su quale debba essere il nuovo, i pareri saranno molto diversi; e in ogni campo. E sarà bene che ogni stato giochi le sue carte, senza nascondersi dietro al veto di Olanda o Polonia. E che ogni formazione politica si esprima, senza se e senza ma, non su di un’Europa immaginaria ma su quella che vuole.In quanto ai sovranisti, perché antieuropei, non c’è spazio per loro. Perché il loro ruolo sarà più che ampiamente coperto dal “paese più sovrano che c’è”, leggi dalla Germania di Karlsruhe e dell’Afd; con la mediazione della Merkel.APERTURISTI E QUARANTENISTIIn Europa non ne sarei così sicuro. Ma negli Stati Uniti la cosa è assolutamente certa. Essere aperturisti è di destra; e, quindi, essere quarantenisti è di sinistra.A cercare lo scontro, e su di un tema in cui sfoggiare spirito di concordia dovrebbe essere d’obbligo, sono stati i repubblicani. Perché non sono preoccupati dal contagio (al punto, udite udite, di usare le mascherine nella misura del 48% contro il 68% dei democratici) mentre considerano la malattia poco più di un raffreddore rafforzato. Perché vivono nell’America profonda lontana dalle turpitudini e dalla confusione delle metropoli invase dal contagio. Perché sono bianchi e, calvinisticamente parlando, intimamente rassicurati dal fatto che la folgore colpisca neri, ispanici, ed emarginati e non assicurati. Perché detestano l’intrusione dello stato; e la quarantena è intrusione al massimo livello. Perchè sono estremamente sensibili alle esigenze del business. E, infine, perchè avvertono che la loro sensibilità così come i loro interessi coincidono al punto di confondersi con quelli di Trump; e che il momento della prova decisiva, le elezioni, è sempre più vicino.E’ stato del resto lo stesso Trump a porre la questione del contagio al centro della sua campagna elettorale. Ma in modo volutamente schizofrenico. Perché il sullodato contagio è descritto come un pericoloso attacco agli Stati Uniti se e in quanto proveniente dall’esterno (virus di Wuhan, cinesi, migranti, italiani, iraniani, islamici) mentre diventa un fenomeno al limite irrilevante una volta stabilitosi regolarmente in America; al punto di considerare il numero dei decessi tutto sommato meno rilevante dell’indice di borsa.Inutile dire che questa narrazione ha contribuito a compattare il partito democratico, sul tema della quarantena come su altri e a indurre lo stesso Obama ad impegnarsi a fondo nella campagna elettorale.Oggi come oggi la maggioranza degli americani è quarantenista. Mentre la stessa pandemia sta colpendo anche l’America profonda, dal Tennessee al Nebraska come in altri stati del Sud , del Nord e dell’Ovest.Qui e oggi, il presidente gioca esplicitamente tutto sulla ripresa dell’economia; obbiettivo da raggiungere ad ogni costo e pagando tutti i prezzi in contagi e in morti necessari per raggiungerlo,Per ora, gli unici segnali positivi sono quelli della borsa. Ma dall’appuntamento elettorale distano cinque mesi e mezzo; e tutto può accadere nel frattempo. Ivi compreso la modificazione delle condizioni del loro svolgimento.ITALIA, GLI INDUSTRIALI ITALIANI E IL DESERTO DEI TARTARIAbbiamo già avuto modo di constatare che, sotto la nuova guida di Bonomi, la Confindustria era diventata più assertiva nella difesa del suo ruolo e dei suoi interessi. E, almeno nel nostro paese, l’essere assertivi non è necessariamente un male. Adesso constatiamo che gli industriali hanno paura; al punto che possiamo collocarli nel fortino di Buzzati, intenti a guardare all’orizzonte in attesa di un attacco imminente e che può venire dalle più diverse direzioni. E qui, siccome la paura incattivisce ed è quasi sempre una pessima consigliera, è nostro dovere civico di spiegargli che non hanno nulla da temere.La statalizzazione, l’irizzazione, la pretesa di entrare nella governance delle imprese? Non è questa l’intenzione del governo che, come dice ottimamente il senatore Nannicini nell’intervista al Foglio, vede se stesso nel ruolo di “emancipatore” e non di “rompiballe”. Il che significa” via tasse, lacci, lacciuoli, “burocrazia, perché ognuno di voi possa dare il meglio di sé”Tasse sui patrimoni o altre misure assistenzialistiche e redistributive come l’allargamento del reddito di cittadinanza? Le chiedono i grillini e il ministro del lavoro (assieme a quelli spagnolo e portoghese); ma perché è il loro mestiere. E a loro sostegno ci sono solo politici in ozio, come Fabrizio Barca.Sindacati? E’ vero; ricominciano a parlare e a fare obiezioni. Ma bisogna capirli; sono stati zitti per troppo tempo.Può naturalmente capitare che qualcuno si infastidisca di questo valzer di querimonie e di rassicurazioni fino a ricordare agli immemori che negli ultimi trent’anni i grandi industriali italiani hanno ottenuto dallo stato tutto che quello che volevano e anche di più, senza dare quasi nulla in cambio: né investimenti, né innovazioni, né aumenti di produttività, né ricerca, né Mezzogiorno, né rinnovo delle infrastrutture. E che, richiamandosi a Keynes, rivendichi il diritto anzi il dovere dello stato nel fare ciò che i privati non possono o non vogliono fare: nello specifico, investimenti massicci per l’ambiente, la sistemazione del territorio, la ricerca e così via.Tutto giusto. Ma il suo articolo è uscito sul Manifesto. Ne riparleremo quando le sue esternazioni usciranno sul Corriere della Sera o su Repubblica.