LO STILNOVO DI RENZI HA ROTTO

LO STILNOVO DI RENZI HA ROTTO

Qui non si parla di politica. Si parla di parole, di un certo modo di metterle in fila, cioè, insomma, in soldoni, di stile e di retorica, e quindi va bene, mi arrendo: si parla di politica. Mentre infuriano (mah!) la polemica e la discussione su quel che ha detto Renzi alla direzione del suo partito, sulle presunte aperture a sinistra, sulle presunte strategie, sulle presunte medaglie che lui crede di meritarsi e gli altri non gli appuntano al petto, una sola cosa ha fatto fare il salto sulla sedia. Si tratta di una frasetta innocente, quella sul “futuro che è una pagina bianca”, balzata fuori dal contesto come un pupazzo a molla.  Da anni siamo abituati a questo florilegio di frasette, sospiri para-poetici, baricchismi, costruzioni retoriche da diario delle medie, quindi nessuna sorpresa. Anzi sì, invece, molta sorpresa che ancora non si sia capito, nel bunker del Nazareno, quanta irritazione suscitino nell’ascoltatore. Si tratta di un fastidio fisico, come un prurito improvviso, dovuto a una ormai conclamata crisi di rigetto. Naturalmente si è scritto molto sulla poetica renziana, interi trattati e antologie, collezioni e faldoni pieni di esempi del ben noto stile. E si badi bene che non è invenzione nuova: lo stilnovo renzista si congiunge abbastanza bene allo stilvecchio veltronico, quello di “Il dolore non è un ciao”, ermetismo lisergico. Dunque siamo nella tradizione letteraria (e politica, che è peggio) del nullismo, una corrente quasi pittorica, che sistema con due pennellate spesse e coprenti i difetti del disegno e gli errori di prospettiva: la riforma ci è venuta uno schifo, vabbé, diamogli una pennellata con qualche frasetta cretina. Qualcosa che potrebbe andare bene come claim pubblicitario per un’auto ibrida, o per un telefono nuovo, tipo “Il futuro è qui”, o “Apriamo le porte al futuro”. E questo da anni. Così può capitare (è capitato) che un italiano di quelli che escono (?) da dieci anni di crisi con le ossa rotte e le poche certezze frantumate, meno diritti, meno prospettive, si senta dire da chi lo governava e pretende di governarlo ancora amenità come: “la bellezza è la chiave di lettura dei prossimi anni”. Poi ditemi che non fa incazzare. Silvio Berlusconi, uno che se ne intende, è stato oltre vent’anni sulla scena politica ripetendo ogni giorno che lui non era un politico. La stucchevole retorica progressista della frasetta a effetto cerca di fare subdolamente la stessa cosa: sì, siamo costretti, ahinoi, a fare la politica spicciola (sbuffando), ma quello che ci interessa sono i grandi temi dell’umanità. Così si impastano strambi intrecci semantici con le parole “speranza”, “futuro”, “bellezza”, “riparte”, “avanti”, sempre uguali e sempre strampalati nella costruzione. Scemenze, insomma, che subito partono come il tam tam delle tribù del Borneo, rilanciati da colonnelli e marescialli, giù giù fino alla truppa. Pessima letteratura in pillole per non-lettori diffusa (o derisa, fa lo stesso) come una filodiffusione in sottofondo, quasi non udibile, ma pervasiva, come la musica che si sente negli ascensori, o prima del decollo in aereo: tranquillizza, e non vuol dire niente. Il fastidio del cittadino (di destra, sinistra, centro, populista, sinistra bersaniana, incazzato generico ascendente cinquestelle, e tutti gli altri)  è ormai palpabile, accompagnato dalla netta sensazione di essere preso per il culo. Ogni azione ha la sua poetica e le parole per dirlo, ma stupisce come le piccole elegie tascabili del renzismo siano tramontate in fretta, passate di moda, si siano logorate e abbiamo mostrato la loro sublime inconsistenza, insieme alle politiche di chi le declama. Il fallimento delle cose e il fallimento delle parole sono un po’ la stessa cosa. Lo sapevamo già, ma al poeta del Nazareno piace ripeterlo all’infinito.