IL SOR UMBERTO LENZINI CHE 32 ANNI FA CI LASCIO’

IL SOR UMBERTO LENZINI CHE 32 ANNI FA CI LASCIO’

L’anno è il 1931, lo stadio è la vecchia Rondinella, lo stadio della Lazio, il primo stadio vero che abbia avuto la Capitale e che aveva suscitato, quattro anni prima, gli appetiti della federazione fascista che stava formando quella che diventerà la seconda squadra della Capitale. In quello stadio la Lazio nel 1931 giocò una partita amichevole contro una squadra minore, che però si chiamava Juventus, ma non era quella di Torino, era la Juventus Romana. A quell’epoca si amava chiamare le squadre di calcio, ma anche le società sportive in genere, con nomi latini: Vigor, Robur (il Siena si chiamò così fino al dopoguerra), Fortitudo, Pro Patria et Libertate (nei tabelloni, “et Libertate” era ovviamente omesso). Juventus, che vuol dire gioventù, giovinezza, era il nome più diffuso in tutta Italia, tra le squadre minori, per via dello squadrone piemontese di cui si imitavano anche le maglie bianco-nere.Ma torniamo alla nostra partita. Ovviamente, la Juventus Romana era una classica squadra da allenamento, una squadra “materasso”, come si diceva una volta, a cui venivano rifilati un certo numero di gol e rimandata a casa. I gol della Lazio quella volta furono cinque. Ma, verso lo scadere dei novanta minuti, una aletta veloce e scattante con la maglia della Juventus si impadronì sul filo del fuorigioco della palla rinviata dal suo portiere, si liberò di un paio di difensori laziali e depositò la palla in rete, “battendo l’incolpevole portiere” (come avrebbe scritto un cronista dell’epoca), che poi si chiamava Sclavi, che era il capitano della Lazio e il primo di una lunga lista di grandi portieri che negli ultimi 80 anni hanno vestito la maglia biancoceleste. Una lista che si apre con Sclavi, che continua con Blason, Gradella, Sentimenti IV, Lovati, Pulici, Orsi, fino a Marchegiani, Ballotta e Peruzzi.E’ proprio Sclavi a congratularsi con la giovane aletta. Gli stringe la mano e il ragazzo, che non ha neppure venti anni, si emoziona, arrossisce e riesce appena a balbettare un grazie. Sclavi lo indica al dirigente Bitetti. “Non se lo lasci scappare…” dice. Bitetti chiede al ragazzo se è già tesserato con qualcuno. “Sono libero” risponde il ragazzo. “Allora ne possiamo parlare” dice Bitetti. “Mi piacerebbe ma non posso…” risponde il ragazzo. Bitetti lo guarda sorpreso e il ragazzo sente che deve una spiegazione. “Sono nato nel Colorado e intendo mantenere la cittadinanza statunitense” dice. E così il discorso è chiuso.Quel ragazzo si chiama Umberto Lenzini.Nei romanzi di Alessandro Dumas si passa a “venti anni dopo” ma nella nostra storia il salto è più lungo: trenta anni e più. Quella aletta scattante è diventato un signore attempato, grassottello, calvo, con l’aria, e la stazza, da commendatore. Non è più cittadino americano, è diventato un importante e abile imprenditore nell’edilizia (insieme ai sui fratelli, Aldo e Angelo, ha costruito interi quartieri di una Roma in grande espansione) ma l’amore per il calcio e per quella maglia che tanti anni prima avrebbe potuto vestire come calciatore, l’ha deciso ad una avventura rischiosa ed esaltante nello stesso tempo. Diventerà il presidente della Lazio.La Lazio in quegli anni Sessanta era finita in un cul de sac da cui, talvolta, riusciva a riemergere faticosamente per poi sprofondare di nuovo nel nulla. Il motivo era la mancanza di una struttura finanziaria e societaria solida e soprattutto di soci finanziatori con disponibilità illimitata, per cui periodicamente finiva nelle mani di persone affidabili e perbene ma che non disponevano di denaro da investire (e spesso da perdere) o addirittura nelle mani di filibustieri in cerca di gloria e di avventure a buon mercato, in un settore che già in quegli anni dava grande visibilità. Come quel Brivio che andava in giro con un leoncino al guinzaglio e che si autodefiniva l’”ultima raffica di Salò”, anche se pare che il suo mitra a Salò non avesse mai… sparato. E si dichiarava bersaglio di bizzarri attentati… alla punta del dito mignolo di una mano. I soldi che metteva nella Lazio erano quelli di papà e quando il genitore stanco della dilapidazione del patrimonio di famiglia chiuse i cordoni della borsa, Brivio se la filò lasciandosi dietro una montagna di debiti.“E venne un uomo” (mi scusi Ermanno Olmi per l’appropriazione del titolo del suo film su Papa Roncalli), e fu il salvatore della patria laziale. Questo uomo si chiamava Umberto Lenzini.A quell’epoca questi signori che tentavano l’avventura nel calcio, dilapidando spesso cospicui patrimoni (abbiamo avuto dei fulgidi esempi anche a Roma, sull’altra sponda calcistica) venivano chiamati “ricchi scemi”. Ma Lenzini non era nemmeno tanto ricco e non era affatto scemo.Negli affari, il Sor Umberto, come presero a chiamarlo affettuosamente i laziali, era astuto come una volpe ma nella Lazio la sua arma migliore era il buon senso del buon padre di famiglia. Fece pulizia di tutta la zavorra che gravitava intorno alla Lazio e si mise a ricostruire l’ambiente e la squadra con pazienza e con passione.Era un timido, il Sor Umberto, ma questo aspetto del suo carattere non gli impediva di agire con decisione. Come quando dovette debellare il partito dei cosiddetti “lorenziani”, i nostalgici dell’allenatore argentino, che aveva dato un momento di gloria alla Lazio, poi aveva tradito per andare ad allenare i cugini (sua fu l’iniziativa di passare con il cappello in mano fra i tifosi romanisti radunati al teatro Sistina per raccogliere i fondi necessari per pagare le trasferte dei giocatori), per poi tornare e farci assaporare qualche momento di gloria e riportarci di nuovo in Serie B, avendo a disposizione una squadra fortissima che contava già su giocatori importanti come Giorgio Chinaglia e altri che formeranno il “wonderteam” del primo scudetto.Dopo la retrocessione, il Sor Umberto aveva liquidato Lorenzo e preso un tecnico emergente, già vincitore di due “seminatori d’oro”, il massimo premio che viene assegnato ad un tecnico di calcio. Si trattava di Tommaso Maestrelli, un grande che aveva lasciato il segno dovunque era passato, anche e soprattutto dal punto di vista umano, per quella sua straordinaria capacità di capire e di motivare i suoi giocatori.Lenzini sarà il primo presidente che farà grande la Lazio resistendo alle pressioni di una parte della tifoseria. Dopo di lui ce ne saranno altri e probabilmente ce ne saranno ancora, finché durerà la storia.Ma il merito maggiore di Lenzini fu quello di capire che Maestrelli lo avrebbe portato lontano con una squadra che fu formata in un paio di anni senza vendere gli elementi più richiesti, come Chinaglia e Wilson per il quale la Juventus e l’Inter avrebbero fatto follie, ma andando a scovare giovani promettenti e vecchi campioni ritenuti alla fine, come Frustalupi.Io l’ho conosciuto e l’ho frequentato molto, il Sor Umberto. Proprio negli anni d’oro della sua gestione. Amava le canzoni romane e la buona cucina romana. Il suo luogo preferito era la trattoria di Agustarello a Testaccio, nel cuore della tifoseria romanista dove i laziali, e con loro il Sor Umberto, si comportavano come carbonari, ma non nel senso di cospiratori ma in quanto golosi consumatori della famosa “carbonara”.Il suo collaboratore preferito era Angelo Tonello, che era anche il suo uomo di fiducia, quello a cui affidava la gestione dello stadio e la vendita dei biglietti. E che Lenzini considerava quasi un suo figlio adottivo.A me sembrò sempre un uomo solo, con una famiglia un po’ distante. Un uomo mite e forte nello stesso tempo che aveva fatto della Lazio la sua seconda famiglia. Gli anni più felici della sua vita immagino che siano stati quelli del trionfo della Lazio, quando si riuniva prima della partita con Maestrelli, Re Cecconi e Frustalupi a giocare a tressette. Oppure a scopa con Tommaso. Una partita che il presidente doveva per forza vincere per ragioni scaramantiche. E poi, ispirato dalla sua Lazio, il Sor Umberto era diventato anche indovino: il giorno prima della partita si concentrava per un attimo di fronte a Maestrelli, a Ziaco e a Padre Lisandrini (alla scena veniva ammesso talvolta anche qualche cronista tra quelli che vivevano il mondo laziale) e poi vaticinava. Di solito prevedeva sempre vittorie e talvolta arrivava ad azzeccare anche il punteggio.E poi la domenica, prima dell’inizio della partita di fronte allo stadio stracolmo e colorato con i colori del cielo, il saluto ai giocatori negli spogliatoi, la stretta di mano con Maestrelli, la soddisfatta lettura dell’incasso e poi il giro di campo nel tripudio di bandiere. E lui che passa davanti alla sua folla, benedicente, come un papa, il papa del popolo laziale. Ogni favola bella ha una fine, talvolta dolorosa. E di dolori il Sor Umberto dalla Lazio ne ha avuti tanti, quasi a cancellare le gioie. Ha visto morire il suo Tommaso Maestrelli, divorato da un cancro, ha visto il suo “angelo biondo”, Re Cecconi, rapinatore per burla, cadere sotto i colpi di un gioielliere che credeva di difendersi, ha visto un tifoso laziale, un padre di famiglia, Vincenzo Paparelli, ucciso durante un derby. E poi al dolore si aggiunse la vergogna del calcio scommesse, con le immagini indelebili di quattro giocatori laziali ammanettati e portati in prigione.Si dimise immediatamente e disse: “Mi sono dimesso ma non con il cuore”. Perché il suo cuore sarà sempre con la Lazio.L’ultima volta che lo vidi fu all’uscita dello stadio durante la gestione di Chinaglia, che gli aveva mandato un biglietto omaggio. Era raggiante perché la Lazio aveva vinto e perché, mi confidò, Chinaglia gli aveva promesso la presidenza onoraria. Ma la promessa non fu mai mantenuta e il Sor Umberto finì i giorni che gli restarono da vivere nell’anonimato. Ingrata patria!