CHIAMARLO “IUS SOLI” CREA MALINTESI. TEDESCHI E INGLESI HANNO LE STESSE REGOLE
Il giorno da vendicare è il 16 novembre del 2017. Fu allora che 29 senatori del Pd, ben un terzo della dotazione del Partito democratico a Palazzo Madama, non si presentarono in aula per la verifica del numero legale, facendo così naufragare la riforma della cittadinanza per i bambini nati in Italia da genitori stranieri dei quali almeno uno provvisto di permesso di soggiorno permanente. Una macchia per l’intero Pd. E niente scaricabarili: se infatti il premier Paolo Gentiloni non mise la fiducia sul provvedimento, che era stato varato in prima lettura nell’ottobre del 2015 alla Camera, è anche vero che, di quei due anni in cui rimase nel cassetto al Senato, uno intero si è consumato con Matteo Renzi a Palazzo Chigi. Era dunque tutto il partito che non considerava più prioritaria la riforma, attesa invano da oltre 800 mila giovani. Se adesso, sull’entusiasmo acceso dagli atti eroici di Ramy e Adam, si vuole davvero recuperare il terreno perduto, e il Pd di Nicola Zingaretti prenderà l’iniziativa, occorre prima chiarire per bene quali fossero i punti cardine del provvedimento, che i tanti politici intervenuti sui giornali e in tv negli anni scorsi non sono stati in grado di raccontare. Non ha aiutato affatto l’uso e l’abuso dell’espressione “ius soli”. Anzi ha creato l’equivoco dilagante che chiunque nasca sul suolo italiano sia per ciò stesso italiano, e che il nostro Paese possa diventare la più grande sala parto del Mediterraneo. “Non si può dare la cittadinanza al primo che passa” disse una sera in tv Matteo Salvini, senza che nessuno gli obiettasse alcunché. Lo “ius soli” assoluto esiste soltanto in alcuni Paesi, Stati Uniti e Canada su tutti, e in Europa venne sperimentato unicamente in Irlanda, e frettolosamente abolito nei primi anni del 2000. Dizione equivoca, quella di “ius soli”, anche perché in Italia il principio è già applicato, pur se in una forma rigidissima, o per meglio dire spietata nei confronti dei ragazzi stranieri: la legge sulla cittadinanza attualmente in vigore, la numero 91 del 1992 (che venne approvata con il voto favorevole delle sinistre) prevede infatti che un bimbo straniero nato da noi possa diventare italiano, ma dopo aver trascorso 18 anni ininterrotti nel nostro Paese prima di presentare domanda di cittadinanza. Come chiamarla allora, la riforma abortita? La legge sui “Nuovi italiani”, ad esempio, o dei “Bambini cittadini” o anche “Cittadinanza alla tedesca”. Già, perché pochi sanno che dal 1 gennaio del 2000 un bimbo straniero nato nel territorio della Germania (ma le stesse regole vigono nel Regno Unito) è cittadino se almeno uno dei genitori risulti in possesso di un permesso di lungo soggiorno, che a Berlino (come a Londra) viene rilasciato dopo otto anni di soggiorno regolare. Il principio base della riforma italiana era identico: cittadinanza a un bimbo nato sul nostro territorio da una famiglia già integrata, e non di passaggio. Soltanto che il permesso per lungo soggiornanti, in Italia, si può richiedere dopo 5 anni e non otto di residenza regolare: ma da noi è più complicata la trafila burocratica. Erano a conoscenza i deputati e i senatori che nel Regno Unito e in Germania vigono le stesse regole, niente affatto sovversive, che si volevano introdurre da noi? E perché allora non ne hanno mai parlato? Non era questa un’arma potente per condurre il dibattito politico, scongiurare malintesi e sconfiggere i pregiudizi? Se verrà seriamente rilanciato il vecchio progetto, sarà poi opportuna qualche correzione, anche per cercare di allargare l’area del consenso. Si potrebbe prevedere, ad esempio, che il bambino maturi sì alla nascita il diritto alla cittadinanza, ma che questa gli venga conferita in quinta elementare, magari con tanto di cerimonia in classe. C’è poi una parte della riforma di cui poco si è discusso sui media e sui social, perché bastava e avanzava lo scoglio “ius soli” a bloccarla, con gli equivoci a cui si è prestato. Ed è lo “ius culturae”, cioè la possibilità di diventare italiani concessa ai non nativi giunti nel nostro Paese entro il compimento dei 12 anni e che avessero frequentato regolarmente cinque anni di scuola italiana o superato corsi di formazione professionale triennali o quadriennali. Ora, la formazione professionale serve a imparare un mestiere e non può valere da sola per diventare cittadini. Il ciclo scolastico andrebbe poi sempre superato e non soltanto frequentato regolarmente. Probabilmente è pure necessario abbassare l’età massima dell’ingresso in Italia, se si vuole che la norma passi. Già ma con quali altri voti? Quelli dei 5 Stelle, ad esempio, che dovrebbero ricordarsi di aver presentato sei anni fa alla Camera una riforma molto più radicale di quella del Pd svanita nel nulla. Per ottenere la cittadinanza, era sufficiente che un bimbo fosse nato in Italia da genitori stranieri di cui “almeno uno vi risiedesse da non meno di tre anni”. Nessun bisogno di permesso di lungo soggiorno, dunque, nella proposta 1206 del 14 giugno del 2013, firmata da ben 95 deputati pentastellati, fra i quali l’intero Gotha del Movimento, da Luigi Di Maio ad Alessandro Di Battista, da Roberto Fico a Danilo Toninelli e Alfonso Bonafede. Con un provvedimento ben congegnato, andranno cercati altri consensi tra le formazioni di Centro. Il tema non è quello, certo spinoso, degli sbarchi. Qui si tratta di rendere italiani di diritto bambini e ragazzi che lo sono già di fatto, vanno a scuola con i nostri figli, parlano la nostra lingua e i nostri dialetti, tifano per le nostre squadre di calcio. E per la Nazionale della nuova stella Moise Kean, piemontese di nascita, ivoriano di origine: il testimonial forse più popolare di un’Italia che cambia.
