QUI IL NONNO AVEVA INIZIATO A EVAPORARE
Qui il nonno aveva iniziato ad evaporare. Con mio grande dolore ma anche divertimento, perché era comunque simpatico. Quando se ne andó avevo 16 anni, papá l’aveva messo in un istituto, dal quale riuscí a fuggire. E se era fuggito, vuol dire che non ci stava bene ma non aveva piú le parole per dirlo. E semmai le avesse trovate, nessuno l’avrebbe ascoltato. Lo rivolevo a casa. E chi c’é passato sa cosa vuol dire, al tempo in cui le badanti non esistevano, avere in casa una persona cara con l’alzheimer. “Mio nonno fu, a poco a poco, strappato alla ragione. Cominciò ad avere idee strapazzate. Frullati di ricordi. I Grandi lo sistemavano tra noi bambini, affidandocelo, e lui restava immobile per ore a guardarci giocare. Per molti anni ancora ebbe occhi gentili. A volte si alzava all’improvviso con l’aria di chi doveva andare. “Dove vai, nonno?”. “Eh, l’America. Gli affari…”. E bisognava riprenderlo, metterlo a sedere, raccontargli delle storie per distrarlo da tutte quelle persone che si sentiva intorno. Ma a volte era lui che distraeva noi. Restavamo incantati dalle discussioni tra fantasmi. Senza accorgerci, muovevamo la testa da mio nonno all’angolo con cui dialogava. Aspettavamo le risposte. Ci ritrovavamo a sorridere o ad aggrottarci secondo i toni della discussione. I migliori marinai della nave della follia sono i vecchi e i bambini. Ci sono rotte dove i Grandi non si avventurano, nemmeno quando sono pazzi. Lucia spiava: “Tutti scemi, qua…”. Sparita nonna aveva artigliato la nostra casa, e non c’era nostro cassetto, armadio o ripostiglio in cui sapessimo cosa c’era dentro davvero. Le stanze erano diventate grandissime. Ma non silenziose, per via di tutta la gente invisibile che mio nonno invitava. Lui era sempre molto elegante e ormai portava il borsalino anche in casa, benché facesse segno di toglierlo ogni volta che vedeva una donna, vera o immaginaria che fosse. La cosa di cui sono sicura è che non invitò mai, mai, mai la nonna . Lo prese invece una certa frenesia sessuale, una continua memoria di seni e di sederi, che lui descriveva a noi bambini con uno schioccar di lingua e un certo sorriso. Fino a quando non si volle considerarlo capitolo chiuso, gli fu lasciata una qualche autonomia e una dignità d’azione. Così permettevano che mi portasse a fare “un giretto”. Invece andavamo lontano. Mi portava da certi suoi amici, certi anziani che erano stati a lungo giovani. Giocavano con le carte napoletane e spesso dividevano col nonno quei ricordi di seni e di sederi. Imparai così che i vecchi non invecchiano e che il passare degli anni non li rende quasi mai più saggi o più rispettosi del tempo e della vita. Imparai anche che quando i vecchi cominciano a ridere non si sa mai dove vanno a parare: se continueranno a ridere o si perderanno a piangere. Non lo sanno nemmeno loro. Il nonno cominciò a darmi nomi diversi dal mio. Poi, una volta ero una femmina, altre un maschio. Avevo identità diverse. Maria, per esempio, Maria La Banca, mi chiamava. Solo trent’anni dopo quei pomeriggi di stupori, visitando il paese dove lui era nato, scoprii che Maria La Banca era esistita davvero. Era la figlia di un notaio che abitava proprio davanti alla casa dei bisnonni. Una bambina che era stata sua amica e, forse, il suo primo amore. Penso che l’abbia dovuta lasciare per andare in America, solo e clandestino. Come poi era rimasto per sempre. Accettai il nome come un segreto tra me e mio nonno. Incredibile quanti segreti debbano tenere i bambini.Zia e la sua compagna si occupavano di mio nonno che non si decideva a morire. Un giorno trovai un biglietto, c’era scritto che partivano per il sabato e domenica e che avrei dovuto pensarci io. Lui mi guardò: “Alessandro, ci facciamo una pasta?” mi disse.Feci quello che sapevo, che avevo visto fare a Lucia. Ne venne fuori un qualcosa che ci mangiammo insieme al tavolo di marmo della cucina. Mio nonno rideva.“Che c’è?”.“Non sai cucinare…”.“Ora si va a letto”.“Pipì”. Caspita, questa non me lo aspettavo. Bisognava fargliela fare e poi lavarlo. Ci sono delle cose che è strano affrontare. Strano toccare un corpo che seppur amato, non si conosce per nulla né si vuole conoscere. Quelle due avrebbero potuto almeno insegnarmi, prepararmi. Ma lo feci., perché si fa. Poi spogliai mio nonno e lo misi a letto.“Tu non mi vuoi bene!”, lacrime agli occhi, perché aveva l’Alzheimer ma mica era scemo, l’avevo sballottato, maneggiato con rabbia.“Certo che te ne voglio, tantissimo!”.Era vero. Spensi la luce, andai nella mia stanza e dopo pochi minuti me lo ritrovai davanti. Tutto vestito, cappello compreso.“Pipì”, disse. Si ricominciò daccapo.“Ora si dorme!”.“Alessandro, si va a mangiare al ristorante?”.“È notte, dormi”.Dieci minuti ed eccolo lì: “Andiamo?”.Ricordai che c’erano delle medicine da dargli se era agitato, ma quante pasticche? Decisi una. No, due. Quando vidi che se l’era fatta sotto di nuovo, decisi per quattro Gli rimboccai le coperte: “Vedrai che ora andrà meglio”. Si addormentò di botto. Dormiva così profondamente che pensai di prendere la vespetta e raggiungere i miei amici a una festa. Tornai verso le 3 del mattino e vidi che le finestre di casa mia erano tutte accese. Sulla facciata del Palazzo risplendevano come un guaio grosso. Quattro pasticche erano troppe.Lucia era passata a vedere come me la cavavo, ma io non c’ero e mio nonno, seppur pulito e a letto, non si riusciva a svegliare.Telefonò a mio zio, che chiamò il dottore. Erano tutti lì ad aspettarmi.“Beh? Manca qualcun altro? Non l’avete una casa?”.Spavalda. Ma mio zio mi conosceva bene, non disse nulla, e pochi minuti dopo, una volta soli, piangevo disperata abbracciandolo. Nonno si riprese ma non me lo affidarono più completamente”
