UNA DOMENICA DI GIUGNO DA NON PASSARE TUTTA IN CASA

UNA DOMENICA DI GIUGNO DA NON PASSARE TUTTA IN CASA

Non so che cosa sarà questa giornata. Non so che cosa mi riserverà. Ho anche, come sempre, il piccolo timore che sia l’ultima della mia vita. È domenica, è unadomenica di metà giugno. Uno dei giorni più lunghi dell’anno: poi si accorceranno, sempre di più. E io ho già la tristezza di non averne approfittato, di non avere bevuto tutta la luce che vorrei. Vorrei sempre andare in Scandinavia, di questi tempi. Vorrei sempre andare in Scandinavia a giugno, e vedere com’è che il sole non muore mai, o quasi mai. Invece sono qui, ed è già mezzogiorno. Io mi sveglio, già pieno di sudore, quando la mattina è già finita, e non so che cosa fare. Il caffè, come fa Kalle Blomqvist nella serie Millennium. Ogni due pagine qualcuno fa un caffè, fresh brewed, e io me lo immagino, quel caffè in tazze grandi, caffè poco capace di scuotere e più di scaldare, caffè che sveglia però, caffè che mette in moto i neuroni, caffè di cui si sente il profumo in quelle case a Stoccolma, caffè che porta un po’ di Italia e di latino America in quel Nord di muri così bianchi e spogli, di parquet, di finestre senza avvolgibili. Il caffè, per essere uomini, per essere diversi da chi si ubriaca. Kalle Blomqvist – che poi non ama essere chiamato così – non si ubriaca, non perde la ragione, e quando una donna va a letto con lui, è sempre la donna che decide, lui non fa mai la prima mossa. Vabbè. Ciao, Kalle Blomqvist. Ti ho voluto un sacco di bene, perché hai sempre cercato di fare le cose giuste, nelle tue pagine. Stieg Larsson, avevi ancora la faccia da ragazzo. Sei morto quando avevi finito l’ultima pagina del tuo terzo libro, sei morto a cinquant’anni, eri più giovane di me adesso. Chissà, magari ce l’avrei fatta anche a conoscerti, e a farti qualche domanda. Con il mio amico svedese giornalista, alla fine sarei arrivato in qualche stanza con un registratore o una videocamera, a farti qualche domanda sul mondo che eri riuscito a costruire. Un po’ di zucchero, ci sono ancora dei biscotti. Colazione da re. E poi accendere la televisione. Il tennis. Una partita sull’erba. Una finale. La Bertens, Kiki Bertens, gigantessa bionda, olandese, salute nordica. E un’americana, più esile, più gentile. La Bertens con le sue braccia forti domina il primo set, 6-0 in una finale, roba da altri tempi. Ma nel secondo set si fa male, da sola. Passano i minuti, silenzio sul campo. Va via. Va a farsi medicare. Ma poi torna. E nel secondo set è battaglia vera. L’americana esile e gentile combatte con tutte le sue forze, annulla quattro o cinque match point, dà fondo a tutte le sue energie nervose. E sembra quasi capace di vincere lei, dopo essere stata a un millesimo di secondo dalla fine cinque volte. Geme ad ogni colpo, come se non ne avesse più. Ma riesce ad arrivare al tie break del secondo set. Ma io non lo so com’è andata a finire, è incredibile come vivo con passione, con amore le partite di tennis, e poi sono capace di abbandonarle quando il momento è passato. Devo andare, se non vado via entro le due di pomeriggio rimarrò a casa tutta la giornata, forse tutta la settimana, forse tutta l’estate, magari anche tutta la vita.