E ALLORA È MEGLIO VIVERLA LA VITA

E ALLORA È MEGLIO VIVERLA LA VITA

DI GIOVANNI BOGANIMi sembra così bello, quello che ho, solo quando me ne vado. Mi sembrano così belli tutti i libri che posso leggere, e il letto dove posso dormire, che spesso mi sembra solo un letto di chiodi, dove rimanere sveglio, dove soffrire in silenzio. Mi sembra così bella questa poca vita che ho a Firenze, quando sto per andarmene. Anche se me ne vado per due giorni. Devo andare a Matera. Matera che è bella, che è grigia e possente. Matera che è lontana. Ci vogliono tante ore. Devo arrivare a Roma, poi un treno per Bari. Poi un’auto da Bari. Da Roma è facile, un treno e tutti insieme, immagino. Io devo arrivare a Roma Termini entro le otto di mattina. E non è facile. Ho un biglietto di Flixbus per le 3.15. Lo so che chi me lo ha fatto, rabbrividisce pensando che devo partire a quell’ora, ma per me non è così terribile in fondo. Però la sera prima è dura. Cerco di dormire alle sette di sera. Per alzarmi alle nove, quando c’è Crozza e c’è anche Zoro. Ce la faccio. Più o meno. Alle nove e mezza sono in piedi. Crozza mi sembra stanco, inciampa sulle parole. Il tempo non ha avuto pietà neanche per lui. Ancora no, ma lo sento che non regge più per tanto. Non riesce a dire “reddito di cittadinanza”, forse perché è un’idea balzana anche per lui. Ma non è più lui, non ha quella forza, quella cattiveria che aveva prima. O sono io che non gliele vedo più. Guardo Zoro. Dice le stesse cose, forse, ma le dice con più vita e più sporco addosso. Le cazzate dette da Di Maio sugli acquisti “immorali” le hanno nel mirino tutti e due. Da Zoro c’è Lello Arena, che insomma, come Che Guevara di settimana potevano trovare di più. Poi Zoro se ne va con Paolo Virzì a guardare la manifestazione del Pd a piazza del Popolo. Sono in motorino, sporchi e comunisti tutti e due, antico e letterario Virzì, più giovane e furbo Diego Bianchi. E prima, c’era il sindaco di Riace, che riesce a malapena a mettere due parole in croce, e in croce ce l’hanno messo lui, perché ha fatto sposare qualche africana con degli italiani, per farla rimanere qui. Non si fa, no. Ma in questo paese non finisce in galera quasi nessuno, e lui lo hanno arrestato, subito. È la destra che mostra i muscoli, e dice “adesso vi mettiamo in riga noi”. E se dovessero venir fuori le ragioni per cui la gente si sposa, secondo me finirebbero in galera in molti. Ma ora, nei guai c’è questo Cristo spaesato che pensa di combattere poteri molto più forti e radicati di lui. Ci sarà chi lo difende e chi lo mette in croce, ma tutti senza pagare pegno: solo lui ci finirà sotto per davvero. Vedo la televisione, mangio più che posso. Mi sono fatto la pasta col sugo buono, e un’insalata enorme, di olive salate, pomodori scipiti e mozzarella di plastica. La mangio mentre guardo la tv, come se fossi un condannato a morte che mangia il suo ultimo pasto, quello che ha scelto. Di solito scelgono schifezze di merda, pasti da McDonald o patate fritte, cose senza qualità, o anche pollo arrosto, pesce, ma niente di raffinato. Non hanno mai saputo che cosa è mangiare bene, e certo non lo sapranno mai, perché moriranno all’alba, con ancora quel pasto sullo stomaco, l’ultimo che avranno potuto scegliere. Io mi sono scelto questo, e ho il succo d’arancia da bere, quello scadente che costa meno di tutti. Ma mi va bene così. È quasi mezzanotte, e trovo la forza per scriverlo, questo pezzo che devo scrivere da una settimana. E scrivo. Scrivo delle sale di Firenze, dei ricordi di tante persone che conosco. Scrivo con tutta la forza che ho, cercando frasi a effetto, cercando di rendere quello che ho in mente: la storia di Firenze, e della gente di Firenze, e in fondo di tutta l’umanità, attraverso le storie di piccoli e grandi cinema, da quelli del centro a quelli di quartiere, dalle arene estive scalcinate degli anni Cinquanta ai multiplex. Perché ogni sala ha una storia, e ogni persona ha una sua storia di amore, di complicità, di nostalgia, di ricordo, di emozione con una sala cinematografica. Ho scritto; sono le due meno cinque. Il bus è alle tre e quindici. Ho tempo. Riesco a dormire? Mi stendo sul letto, e provo a dormire per mezz’ora. Ma mezz’ora è troppo poco per calmarsi. Non dormo. Leggo. E penso “ma quanto sono belli questi libri che ho sul comodino”. Questo libro che mi parla di altri libri, di Svevo, di Conrad, di Bianciardi e di Pavese. E io comincio a sognare, a desiderare di averli letti tutti, quei romanzi: Hemingway, Melville, Jerome. E invece non li ho letti, e probabilmente morirò senza averli letti. Come Salvini. Mi dà l’idea che non li abbia letti neanche lui. Ma io, siccome non ho da comandare l’Italia, ho il tempo per leggerli, e per crescere, e per vedere il mondo con occhi più spalancati. E tu no, con i tuoi occhi sempre più chiusi a tutto quello che è successo da cento anni in qua. Perché è questo ciò che tu sei, un uomo di cent’anni fa, Matteo. Mica cattivo: ottuso, che è peggio. E alle due e trentacinque controllo tutto. Abbasso la serranda in salotto, che è buio adesso ma poi verrà il sole. Prendo i panini col prosciutto che mi sono fatto. La bottiglia di succo d’arancia della coop. Lo spazzolino con la dose unica di dentifricio. Ricontrollo se ho i biglietti. Tutto. Ho il telefono? E il caricabatterie del telefono? E il secondo caricabatterie, nel caso perdessi il primo? E il computer? E la scheda sd per la macchina fotografica? E le mutande nuove? Che pantaloni metto? Avrò freddo? Il giaccone lo porto o no? Farà freddo a Matera? Hanno detto che forse piove, devo portarlo. Forse sì, forse no. Deciderò quando sarò fuori. Sono fuori, in motorino, sono le tre meno dieci, non fa freddissimo. Buio, sì. Gente, no. Le strade vuote, i semafori però funzionano. Un’auto, una sola, mi si mette davanti e non mi fa andare come vorrei. Ma alla fine arrivo. Tre esatte. Un quarto d’ora in anticipo. Va bene. Nessun bus ancora. Aspetto, con sempre quella lieve paura che il bus sia già partito, per ragioni misteriose. Invece aspetto, aspetto. Tre e dieci, e un quarto, e venti. E trenta. Arriva un bus di un’altra compagnia. Non ho posto per mettermi a sedere. Sono in piedi, con due zaini. Una ragazza che sembra ispanica se ne accorge, lei è seduta, si stringe per farmi sedere anche a me. Mi metto in punta su quel sedile piccolo, per non sembrare un maniaco. Lei sta guardando un tablet con lo schermo sporco e opaco. Non è bella, ha occhiali e capelli lisci, neri. Quei calzini bassi che sporgono appena sopra le scarpe da jogging. Una tuta di quelle con la zip nel mezzo. Più in là, due africani, ragazzo e ragazza, tutti incappucciati. Uno che sembra slavo, giovane, con la barba e il cappuccio della tuta Adidas, si accende una sigaretta e ha gesti nervosi e definitivi, pare, ogni volta. Mettere in bocca la sigaretta, buttarla giù, guardare dritto in avanti con una piega amara della bocca. Uno più lontano, sui cinquanta, parla al telefono a voce altissima, in napoletano. Cazz Crist e Maronn mo’ ch’aggi’a fa’, eccheccazz, ma mo’ non è cosa, non è cosa proprio, no, non è cosa, frate, non puoi urlare così, mi stai spaccando la bolla di sonno che mi sono creato attorno E intanto il bus non arriva. No, eccolo. Verde pisello con le scritte arancio, arriva e scendono in settecento, e alla fine scende l’autista. Che parla romano: “Aoh! Ma quanti devono scenne de questi qqqua? Ma quanti so’? Dieci? Dieci devono da scenne a Firenze? Ebbasta? E questi qua? Aoh, te ‘ndo vai? Ah, vai a fumà? Te devi drogà, fai come te pare, ma nun t’allontanà, se semo capiti? Finita la fiumana, riesco a chiederglielo. No, non va a Roma lui. Va a Bolzano. “E quello de Roma? Mboh, no’o so, ma m’hanno detto de n’incidente sulla A1, stanno tutti fermi, me sa che er bus è fermo in galleria…”. “E quando arriva? E chi lo sa!”. Una ragazza dice “ma noi stiamo aspettando dalle due, e non è arrivato neanche il bus delle 2, e non ci sono notizie sul sito, Flixbus non ha mandato messaggi, siamo qui da due ore ad aspettare!”. E l’autista romano “Eh ma signori’, sur trasporto su gomma se sa, nunn’è come er trasporto su rotaia”, e la signorì “ma io lo so, e lo metto in conto l’imprevisto. Ma avvertitemi, non fatemi stare come una scema per due ore qui senza sapere niente! Non posso organizzarmi, non posso sapere che cosa è successo…” “E signorì, allora scriva! E scrivetele ste recensioni! Che noi autisti stamo così”, e fa il gesto, con la mano, di essere pieno fin sopra la testa. Cè stato un incidente. Cerco di trovare la posizione del mio bus dal telefono. Flixbus ha una app per questo. La scarico. Ma la app mi fa solo prenotare un biglietto, non mi fa trovare dove cazzo è il mio bus. Dieci minuti dopo vedo uno con l’impermeabilino Flixbus. Sembra straniero, peruviano. Gli chiedo se sa nulla del bus per Roma. Sembra capire poco. Mi chiede se è partito il bus per Bolzano. “Sì, dieci minuti fa”, gli dico. E sembra non sapere che cosa fare. Ma lui lavora con Flixbus o ha comprato la pettorina al mercato? Gli chiedo se sa tracciare il bus per Roma. Parla spagnolo, l’uomo finto Flixbus. “Esta atrasado? Esta llegando?”. Poi non so come continuare. Arriva trafelatissimo un ragazzo. Uno dei settecento che erano scesi. Gli chiedo se va a Roma. Mi risponde, in inglese, che lui cerca il bus per Bolzano. Mi chiede se è partito. Sì, dieci minuti fa. “There was my wallet inside!”. Come, il portafogli? “Sì, ero lì, e adesso non so che cosa fare”. Come ha fatto a perdere il portafogli nel bus? E poi soltanto quello? Ma ha la faccia di uno che è sincero. Mi viene un’idea. “Puoi cercare di ritrovare il bus alla prossima fermata, a Villa Costanza. Se corri, ce la fai. Ma devi prendere un taxi, subito”. Lui mi guarda e mi dice: “Ma non ho portafogli, non posso”. Il peruviano capisce al volo, pensa anche lui a recuperare il bus per Bolzano, e dice “prendiamo un taxi insieme”. Il ragazzo dice a me “ma la mia ragazza sta arrivando”. Da dove? Capisco che lui è tornato indietro correndo, e lei se la sta prendendo comoda. “Ma ha una macchina?” “No, è a piedi”. “Ma ha dei soldi lei? Aspettala e prendete un taxi insieme”. Non hai molto tempo, gli dico. Ma il ragazzo non sta chiamando nessun taxi. Si allontana, il peruviano lo segue, con la fidanzata faranno un trio sfortunato, che arriverà a Villa Costanza quando il bus per Bolzano sarà già partito. La ragazza che aveva protestato sta infagottata nel suo cappuccio e nella sua felpa. Ha sotto un K way, e sopra una felpa. Sta con il suo ragazzo, infelpato anche lui. Parlano napoletano. Hanno passato una giornata a Firenze, avevano deciso di rientrare la notte, alle cinque dovevano essere già a casa a dormire e invece. Io cerco la app di Flixbus per tracciare i bus, ma non funziona. Poi collego il computer col mio telefonino, e finalmente dal pc riesco a vedere… sì, ma non si vede. Dice che non riescono a localizzare il bus. E sono le quattro e un quarto. Ancora un quarto d’ora, e poi anche se arriva non riesce più ad arrivare a Roma in tempo per me. Alle otto ho il treno da Termini per Bari. Guardo nel computer: dopo, non ci sono altri treni. Ricominciano la sera tardi. Non c’è modo. Ma ormai ho fatto quasi amicizia con i due ragazzi che hanno visto Firenze in un giorno, che hanno aspettato sera e poi notte per prendere il Flixbus, e che ora stanno tirando la loro stanchezza come un elastico. Aspetto con loro. Il bus arriva. Ma è quello delle due, per me non ci sarebbe posto. E comunque, arriva a Roma troppo tardi anche lui. Li saluto, loro salgono su, io rimango giù. Ormai non posso più fare niente: tempo scaduto, devo tornare a casa. E’ tutto buio, qui, c’è solo il mio motorino che mi aspetta in un angolo come un cane zitto e un po’ abbacchiato. Per farlo contento, decido di portarlo a fare una passeggiata. E insieme, nella notte che ancora non si fa alba, andiamo a Fiesole. Ci vuole un pochino di coraggio per andare a Fiesole alle cinque di mattina. La piazza è deserta, deserta la salita di San Francesco. Assolutamente deserta, e lugubre. La città, sotto, è il presepe di puntini luminosi che ricordavo. La luna è un taglio sottilissimo. Passa una figura di uomo incappucciato, nella piazza siamo soli io e lui. Passa un furgone di quelli bianchi, che portano rifornimenti, cibo o altro, agli alberghi. Si ferma nella piazza. Riprendo il mio scooter. Decido di andare ancora un po’ più su, verso l’Olmo. Dove veramente non ci sono più luci, più lampioni, più niente. Ad una curva, anche il campanile di Fiesole è un piccolo dito di pietra alzato contro il cielo. Firenze è un lago di luci, molto lontano. Matera, con l’albergo che non vedrò mai, è lontanissima, chissà se la rivedrò. La camicia bianca buona è rimasta, con gli spilli e le mollette, dritta impettita nello zaino. I panini al prosciutto che mi sono fatto li mangerò domani. Il pigiama che mi ero portato me lo metterò stanotte, o meglio stamattina, leggendo un libro di Conrad o di Svevo, di quelli che non ho letto mai. E domattina, domenica, magari andrò a vedere qualcuno di quei musei che sono gratis, la prima domenica del mese. Come dice Zoro, si può ricominciare dalla cultura. E magari, dai Prigioni di Michelangelo, che fanno da cinquecento anni una fatica immensa a svincolarsi dal bozzolo di marmo in cui sono invischiati, come noi restiamo incastrati nella dura ottusità dei nostri giorni. O magari potrei rivedere quelle figure di Masaccio nella Cappella Brancacci, che sono così belle, così naturali, così vive. Quanta vita, quanto colore, quanto movimento c’è in quegli esseri umani, dipinti da uno che non aveva neanche trent’anni. Posso cercare di assaporare la vita, domani. Mentre scendo giù nelle curve, un Suv che sta salendo a tutta velocità invade la mia corsia, praticamente neanche mi vede. Sterzo per non essere preso in pieno, il Suv passa e neanche se ne è accorto. Si può finire anche così, mentre stai pensando a cosa fare domani. E allora è meglio viverla, la vita. Qualunque forma essa abbia: bella come i volti di Masaccio, o grezza, dura, porosa e incompiuta come i Prigioni di Michelangelo. Se ha il volto orientale di Yoko Ono o quello da inglese beffardo e provocatore di John Lennon, che stanno nel film che proiettano stasera all’Odeon. E magari vado a vederlo, quel film, e cerco di capire com’è che quei due sono finiti insieme, com’è che l’uomo più famoso del mondo, più famoso anche di Cristo, si è innamorato proprio di lei. E rifletterò sulle strane e improbabili unioni che sono l’unica cosa che conta, nella vita. Che come diceva Claudio Lolli, bisogna baciare le donne, e poi, e poi tenerle strette. Che era una canzone su Villeneuve, campione della Formula 1 che ha consegnato troppo presto alla morte il suo viso di bambino, con un volo spaventoso di cinquanta metri in aria, con la sua auto che sbatteva due volte a terra per poi volare di nuovo, e lui sbalzato con tutto il seggiolino, il casco che volava da solo cento metri più in là, e lui a ricadere a terra come un sasso, sbatacchiando la testa contro un paletto. E insomma, bisogna vivere. In qualche modo, come ci si riesce, ma vivere. Comprando una pianta alla mostra dei fiori, magari, e poi annaffiandola, sperando di vederla crescere. Già, che oggi c’è anche la mostra delle piante e dei fiori, all’Orticoltura. E allora, giorno di sbalestramento, di vacanza inattesa, come tutti quelli che ci è dato di vivere, dopo tutto e a dispetto di tutti. Che è brutto vivere se non hai soldi e non hai prospettive, e magari in cielo ci sono delle brutte nuvole, e non hai nulla di veramente eccezionale da fare, e non hai nemmeno spese immorali da fare. Ma invece, anche tutto questo può essere bello. E Van Gogh rendeva eccezionali gli stessi campi da dove generazioni di contadini di Provenza erano passati, senza vedere niente altro che erba.