SMART WORKING. CHI LO FA E COME, MA CONVIENE O NON CONVIENE?
Sveglia alle 7.00, inizio lavoro alle 9.00. E non per un trucco e parrucco eccessivamente lunghi, ma per tempi biblici di spostamento casa-ufficio. Tutto questo per lo smart worker non è un problema, poiché si sveglia ogni mattina e pensa: “Oggi la mia postazione sarà il divano o il letto?”. Lo smart worker è il lavoratore flessibile nella scelta di orario e luogo di lavoro. In pratica uno che si comporta come un freelance, pur non essendolo. E mica male. Gode di uno stipendio fisso, e tutto ciò che deve fare per vedere la busta paga a fine mese è raggiungere gli obiettivi che l’azienda gli prefissa. Anche se questo vuol dire lavorare in pigiama tutto il giorno. Attenzione, ci sono pro e contro: bellissimo non dover affrontare il traffico cittadino tutte le mattine, non dover sopportare i colleghi stressati e il capo che ti chiede il caffè. Però pensate alla forza di volontà di cui avrete bisogno per alzarvi al suono della sveglia sapendo che nessuno vi urlerà che siete in ritardo, della difficoltà che avrete a non guardare Facebook ogni cinque minuti (cosa che probabilmente già fate di nascosto al lavoro) senza la paura di essere scoperti, della tentazione di prendersi la mattina o il pomeriggio libero che dovrete combattere giornalmente. Nel complesso però, pare che le cose positive superino le negative: la produttività aumenta del 15% per ciascun lavoratore, e il tasso di assenteismo diminuisce del 20% (d’altronde come puoi essere assente se non devi essere in ufficio?). Nell’ultimo anno in Italia i “lavoratori intelligenti” sono aumentati del 20%, arrivando a quota 480mila. Si parla però di grandi aziende: per le piccole e medie imprese è una realtà ancora difficile da accettare, poco conosciuta e quasi “temuta”. Se ci si pensa, è un’idea comune qui in Italia: “Quello? non fa nulla, sta sempre a casa”. La sola idea di “andare in ufficio” ci fa sentire produttivi, come se sedersi a una scrivania con un computer davanti ci rendesse automaticamente utili. Ma quante volte si finisce una giornata al lavoro pensando che avremmo potuto starcene a casa, che di quelle otto ore obbligatorie, abbiamo lavorato intensamente (forse) due? Ebbene, questo è ciò che ci permette di fare lo smart working: niente più orari fissi, ore in cui bisogna stare a scaldare la sedia perché se esci prima il capo si arrabbia. Si lavora per obiettivi, cosa di gran lunga più intelligente e produttiva. Impieghi due ore per fare tale lavoro? Buon per te, le altre sei ore potrai fare ciò che preferisci. Ne impieghi sei? Te ne rimarranno due. Se da un lato questo è un incentivo a lavorare con più voglia, dall’altro forse istiga alla cialtroneria: devo finire in fretta questo lavoro, così posso avere tempo libero. Ovviamente sta ad ognuno di noi avere una certa coscienza, e ai capi controllare che il lavoro sia stato svolto nel migliore dei modi. Alcuni studi condotti dall’Osservatorio Smart Working ci tranquillizzano: evidenziano che il lavoro intelligente e autonomo ha un impatto molto positivo sulla qualità dei risultati. La metà delle grandi aziende che aderisce a questo nuovo metodo preferisce indicare esplicitamente nei contratti quali siano i luoghi di lavoro permessi: i più diffusi sono l’abitazione del lavoratore (80%), altre sedi aziendali (74%), spazi di Coworking (58%) o luoghi pubblici (52%). Questa tipologia lavorativa si sta diffondendo anche nel settore pubblico: su un campione di 358 amministrazioni pubbliche con più di 10 addetti, i progetti di smart working sono aumentati del 3%. Se da un lato c’è una crescita però, dall’altro siamo ancora lontani dai grandi numeri. Su dieci amministrazioni, otto sono ancora ferme. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, il lavoratore intelligente-tipo è maschio (76%), ha tra i 38 e 58 anni (50%) e risiede nel Nord-Ovest (48%). I motivi per cui un dipendente decide di avvicinarsi a questa nuova realtà sono intuitivi: diminuzione dello stress, possibilità di evitare il traffico, miglioramento del benessere. Saremmo quindi portati a pensare, in modo un po’ maschilista, che le donne siano le maggiori interessate: casa, figli, faccende domestiche. Ma in un mondo in cui la parità dei sessi si fa largo sempre più, anche l’uomo sta sul divano con una tazza di tè da una parte e un gatto dall’altra. E chissà che tra un progetto e l’altro si stiri anche qualche camicia… pardon, qualche pigiama da lavoro.
