SI CHIAMAVA EMANUELE

SI CHIAMAVA EMANUELE

DI MAURIZIO PATRICIELLOLe mezze verità sono sempre delle mezze bugie. Anche l’antico vezzo di gridare a squarciagola una notizia e mettere il silenziatore a un’ altra può essere pernicioso più di quanto si possa credere. Soprattutto in questo tempo in cui le notizie si susseguono, si accavallano alla velocità del lampo. Tanti, soprattutto tra i più giovani, leggono solo giornali online, magari in treno, alla fermata del’autobus, in piedi, tra uno spintone e l’altro. E non sempre hanno la possibilità, la pazienza, il tempo di scorrere un articolo fino in fondo. In questo modo è facile accogliere per vero qualcosa che non lo è, oppure lo è solo in parte. Anche per questo le “false notizie” (ci piace chiamarle in italiano) galoppano, s’intrecciano alle vere in un groviglio che non sempre è possibile dipanare. I danni, naturalmente, non si contano. E quando, col tempo, la verità, faticosamente, si fa strada, accade spesso che di quel fatto si è già persa la memoria o l’interesse. In questi mesi dell’Arma dei carabinieri si è parlato e scritto molto. Il caso Cucchi ha addolorato e diviso le coscienze. Il diritto, la giusitizia, la società chiedono che vengano puniti i colpevoli non i giusti. Occorre fare attenzione, distinguere per non aumentare i danni. Non sempre ne siamo capaci. Tutti sapevano che l’Arma in quanto tale non c’entrava nulla con quell’abuso di potere perpetrato su un giovane indifeso da alcuni carabinieri. Tutti sapevano che tirare in ballo l’Arma avrebbe solo potuto nuocere alla verità e ai nostri giovani che hanno bisogno di esempi da imitare. Il caso Cucchi, come ogni altro, va affrontato con trasparenza, onestà, competenza, desiderio di giustizia. Chi ha sbagliato deve pagare, deve avere il coraggio di chiedere perdono alla famiglia, alla società, all’Arma. Chi ha coperto i colpevoli è colpevole a sua volta. Omertà è parola oscena. Chiedere giustizia vuol dire credere nella giustizia, aver fiducia nello Stato. I colpevoli hanno un nome e un cognome, devono essere processati e condannati. Ma gettare fango sull’Arma non è un bene. Tirare in ballo lo Stato lo è ancora meno. L’Arma dei carabinieri annovera tra le sue fila autentici eroi, vivi o morti nell’adempimento del proprio dovere. Storie che, in genere, restano relegate tra le mura delle case, delle caserme, nel cuore dei parenti, degli amici, dei colleghi. È successo martedì sera a Caserta. Si chiamava Emanuele, era un carabiniere. Aveva 34 anni, una moglie, due figliolette. È morto travolto da un treno in corsa. È rimasto sui binari mentre inseguiva un ladro. Un ladro? Uno dei tanti? Ne valeva la pena? Avrebbe potuto far finta di non vederlo e dargli il tempo di scappare. Avrebbe potuto fermarsi davanti a quel muro che invece ha scavalcato. Avrebbe… Invece, no. Nel buio della sera ha inseguito quell’uomo per impedirgli di continuare a fare male, per rendere più serene le nostre giornate, per permettere agli anziani di andare a Messa o rimanere in casa senza il terrore di essere aggrediti e rapinati. Correva, Emanuele, l’altra sera. Correva verso la morte, una morte atroce. Presto la maggior parte di noi dimenticherà il suo nome. Siamo fatti così. A volte cadiamo in una sorta di masochismo che ci spinge a rivangare il male e dimenticare il bene. Emanuele appartiene a quella parte dello Stato che fa fare bella figura allo Stato. A quella parte di umanità che mette in luce il meglio della nostra umanità. Inchiniamoci davanti al vice-brigadiere Emanuele Reali, un carabiniere vero. Facciamo silenzio. Chi ha il dono della fede, preghi. Continuiamo a denunciare il male perché faccia meno male. Ma insistiamo a raccontare le storie di chi per amore del bene mette a repentaglio la sua vita. All’Arma dei carabinieri ribadiamo la nostra fiducia, la nostra amicizia, il nostro grazie.