I TRE “ANELLI”

Chi vuole voltare le spalle al regime nord coreano deve preparare la via di fuga in modo preciso. Senza lasciare trapelare sospetti, evitando i tre anelli costruiti dal potere per tenere a bada i suoi diplomatici. Un dispositivo reso ancora più severo dal Maresciallo Kim Jong un, convinto di essere il capo da tutti amato, ma consapevole delle “debolezze” dei suoi “sudditi”, pronti ad abbandonare la nave se si offrono occasioni migliori. Ed è ciò che ha fatto Jong Sol-gil, il diplomatico basato in Italia.I controlliIl primo anello è rappresentato dai controlli. Stretti, ossessivi. I rappresentanti all’estero sono sorvegliati dai loro colleghi e, in alcuni casi, da agenti inviati in ambasciate sensibili. Sono le ombre delle ombre. Negli ultimi due anni Pyongyang avrebbe accresciuto l’attenzione sul personale: sono stati schierati funzionari di rinforzo nelle rappresentanze mentre le autorità hanno evocato ritorsioni nei confronti della “feccia” (così sono definiti i transfughi). Le notizie di purghe e fucilazioni – a volte rilanciate senza troppe verifiche, peraltro difficili – possono essere servite da ulteriore ammonimento. Se te ne vai rischi in prima persona e per i tuoi parenti si aprono le porte del gulag.La punizioneIl secondo anello è la punizione. Ci sono stati episodi dove i servizi hanno eliminato (o cercato di farlo) gli oppositori rifugiatisi all’estero. Nel 2011 è emerso come le spie del Maresciallo abbiano usato aghi velenosi e altre tecniche per tappare la bocca agli esuli. Seul ha anche scoperto che il regime aveva usato un transfuga come doppio agente: si era consegnato, ma aveva poi iniziato la sua vera missione. Che era quella di assassinare un nord coreano che aveva disertato passando al Sud. Azioni clandestine – avvenute anche in Cina – che hanno anticipato l’omicidio di Kim Jong nam, il fratellastro del leader, avvelenato con una sostanza chimica a Kuala Lumpur. Delitto sfrontato proprio per ricordare quale sia il prezzo di aver scelto la parte sbagliata. Le recenti rivelazioni su un’intrusione hacker in Corea del Sud, operazione che ha permesso di mettere le mani su una lunga lista di fuggitivi, non rappresenta solo una breccia grave, ma suona come un messaggio pesante a quanti se ne sono andati “dall’altra parte”.L’insultoIl terzo elemento è la campagna di denigrazione nei confronti del fuggiasco. I media ufficiali usano insulti, diffondono informazioni false sul target, lo dipingono come un corrotto, un poco di buono. In passato questa attività serviva come cortina fumogena per mosse più dure, specie nei confronti di chi aveva rotto con la nomenklatura ed era rimasto in paesi dove era possibile per il Nord mandare un nucleo di sequestratori. Toccava a loro rapire il bersaglio per riportarlo in patria, dove lo attendeva – spesso – il plotone di esecuzione.Le falleIl sistema, pur feroce, ha tenuto in parte. Le vicende del diplomatico basato a Londra nel 2016 e ora quella di Jong Sol-gil, sono le “punte” che fanno notizia in quanto lo scenario è l’Europa, con intrighi di intelligence, ruolo ambigui e partecipazione di molti attori. Gli Usa, i sud coreani, i nostri apparati. Insieme a queste storie ve ne sono altre, meno eclatanti, che tuttavia mettono in imbarazzo il potere del grande leader. Potremmo definirle piccole fughe verso la libertà, compiute da ufficiali, semplici soldati e a volte pescatori. Davanti a loro si apre un sentiero e lo imboccano con molte incognite, perché non sanno quello che verrà dopo.