LA FINE DELL’INTERNAZIONALISMO DI SINISTRA
Se la crisi venezuelana fosse esplosa durante la prima repubblica (diciamo dal 1960 in poi…) avremmo assistito: a) a cortei, magari non foltissimi ma combattivi all’insegna del “giù le mani dal glorioso popolo venezuelano”; b) all’invio di delegazioni a Caracas per prendere contatti e promuovere il dialogo; c) a una presa di posizione del governo in questa stessa prospettiva.Oggi, nulla di tutto questo. Al massimo, un faticoso compromesso all’interno del “governo degli opposti” nella prospettiva del tutto minimale del mancato riconoscimento di Gaudió, travolta immediatamente dall’indignazione sprezzante della stragrande maggioranza delle cosiddette forze politiche e dei media.E’ una delle tante manifestazioni di un processo generale e, apparentemente, scontato e irresistibile: quello che ha portato alla fine del comunismo e, con esso, della cultura internazionalista da questo promossa. Una cultura in cui lottare per la pace significava, in primo luogo, schierarsi: a fianco dell’Urss e del suo campo, come a fianco dei tanti popoli e/o governi che lottavano per la loro indipendenza e i loro diritti contro il colonialismo e l’imperialismo. Ma anche una cultura che si traduceva in battaglie, insieme strumentali e condivisibili – contro il riarmo, in particolare nucleare, per la distensione, a fianco dei neri del Sudafrica, dei vietnamiti e dei palestinesi – suscettibili di coinvolgere un vasto mondo, compreso il nostro, ben al di là dei limiti dell’ortodossia terzinternazionalista.Oggi questo internazionalismo si è dissolto. E non solo perché viviamo in una realtà in cui sono scomparsi i suoi grandi punti di riferimento (che si tratti della Russia, della Cina o dei simboli del terzo mondo) e in cui dominano le logiche della più brutale politica di potenza; ma anche, purtroppo, perché i suoi stessi corifei, leggi gli ex comunisti hanno semplicemente “cambiato campo”: al posto della Russia, l’America; al posto dell’Onu, l’Europa; al posto delle lotte dei popoli, l’interventismo democratico; al posto del resto del mondo, l’Occidente. Prendiamone atto. E amen.A preoccuparci, invece, di più ad angosciarci, è la scomparsa dell’internazionalismo socialista; e proprio quando la sua concreta esistenza in vita, sarebbe assolutamente necessaria. Parlo del socialismo di Jaurès e di Turati; di Nenni e Lombardi, di Palme, Brandt e Craxi. Parlo di un socialismo internazionalista per ragioni esistenziali: in positivo perché l’affermazione del socialismo aveva bisogno di un respiro e di una solidarietà internazionale, in negativo perché l’affermarsi del disordine e della violenza a livello europeo e mondiale sarebbe stato fatale per la nostra causa.Perché siamo scomparsi? Sostanzialmente perché abbiamo scelto di scomparire. Prima a livello internazionale; e, di conseguenza, anche a livello nazionale. Delegando ad altri compiti che spettavano a noi.Occuparsi del capitalismo e della sua evoluzione? Troppa fatica; il capitalismo e il mercato avevano definitivamente vinto; a noi di incassare le risorse formate all’infinito dal processo di globalizzazione a vantaggio dei nostri referenti sociali.Preoccuparsi di un mondo caratterizzato da contrasti drammatici, dall’assenza di regole e dal radicale e non certo positivo mutamento del ruolo degli Stati Uniti? E di un’Europa che è diventata monumento di conservazione neo-liberista e priva di qualsiasi dignità politica? Impossibile, anche per ragioni culturali e ideologiche. Impossibile, cioè, opporsi, alle politiche americane di oggi, dopo aver fatto, per decenni, atto di pentimento per essere stati antiamericani (a ragione o a torto NdR) ieri. O contestare l’Europa dopo aver deciso di essere europeisti senza se e senza ma.E allora? Nessuno di noi è in grado di trinciare giudizi o di suggerire rimedi. Anche perché l’internazionalismo socialista di oggi e di domani – che ripetiamo è quello dei nostri maggiori – dovrebbe disporre di risorse politiche e intellettuali che non si vedono all’orizzonte.Diciamo solo, allora, che non si riparte da zero. Perché esistono, all’interno delle società occidentali, forze consistenti che non si rassegnano alla passività subalterna, alle chiusure nazionali, alla cultura dell’amico/nemico, all’irrazionalità che nasce dalla paura. E da quelle occorrerà ripartire.
