ROMA CAPITALE, ANZI NO
E’ da circa dieci anni che cittadini romani e ignari turisti vedono scritta sui documenti del Comune come sui mezzi pubblici la parola “Roma capitale”. Una specie di certificazione ufficiale di cui non ha fatto richiesta, a memoria d’uomo, nessun’altra capitale al mondo; nella giustificata convinzione che, se si sentiva il bisogno di aggiungere la parola alla cosa, era segno che qualcosa non andava nella seconda. Allo stesso modo avranno reagito, penso, i cittadini romani che ne avevano viste e sentite di altre: dal faro della cristianità, alla “terza Roma” fino all’impero e ai “colli fatali”, maturando così la fondata, convinzione che queste alate parole fossero la copertura, o la premessa di solenni fregature.Agli ignari turisti può essere facilmente spiegato che questa indicazione apparentemente inutile era, in realtà, il fiocchetto rosa di un corposo regalo offerto da un governo amico al sindaco dell’epoca: soldi, remissione dei debiti (trasferiti opportunamente ad una “bad company”), promesse di interventi di ogni genere e, a coronare il tutto, quella dicitura che sottendeva una promessa: ”Roma sarai sempre nel mio cuore; ripeti questa parola magica e verrai accontentato”.Per inciso, l’”apriti sesamo” non avrebbe mai funzionato negli anni successivi: il debitore salvato sarebbe stato protagonista di ulteriori dissolutezze; e nessuno avrebbe potuto sperare, in futuro, su un adeguato soccorso da parte di governi amici. Ma questa è, come dire, una storia particolare.Il dato di fondo, quello su cui dobbiamo riflettere senza remore, è che la certificazione ufficiale che Roma è la capitale d’Italia appare ed è in controtendenza rispetto alla evoluzione dei fatti e delle opinioni: fatti ed opinioni che indicano, all’opposto, che non lo è o, addirittura, non merita di esserlo. E per una serie di ragioni storiche e di vicende attuali, di responsabilità collettive e di colpe particolari che richiamiamo qui molto sinteticamente, seguendo le orme del recente e bellissimo libro di Vittorio Emiliani.Essere capitale vuol dire, in primo luogo, essere accettati o comunque recepiti come tale. Perché centrali nella percezione che una collettività nazionale, a partire dalle sue classi dirigenti ha di sé; o perché, punto di partenza e/o luogo deputato delle scelte, delle mediazioni, delle mode culturali suscettibili di governarne il futuro.Da questo punto di vista, Roma lo è stata fino alla fine della prima repubblica, anche se, come vedremo, in misura sempre minore; per ridursi ai minimi termini nel venticinquennio successivo.Lo è stata come simbolo del nuovo stato liberale, laico e scientista sino alla prima guerra mondiale ( che, beffa del destino vedrà la sua fine, e l’inizio della nuova, proprio a Roma, nelle radiose giornate del maggio 1915). Lo sarà, sino ad un successo autodistruttivo, nel periodo fascista, dove al mito fasullo ( anche perché percepito come tale dalla gente) dell’impero e degli immancabili destini si accompagnerà la assai concreta e ( ebbene sì) per molti aspetti positiva affermazione di Roma come simbolo del ruolo dello stato e del pubblico nella formazione delle classi dirigenti e nella regolazione dell’economia. Il tutto sotto l’impulso di classi dirigenti in buona parte prefasciste ma unite dalla convinzione che servire lo stato fosse una missione. Lo sarà, infine, lungo tutto il corso della prima repubblica, dove missione e missionari scompariranno gradualmente dal nostro campo visivo ma dove Roma rimarrà il luogo deputato della politica, delle sue mediazioni e della sua nuova missione inclusiva.Con la seconda repubblica tutto ciò verrà completamente raso al suolo, in seguito ad una vera e propria rivoluzione copernicana. Al posto della politica, l’economia. Al posto dello stato e del pubblico, il privato. Al posto dell’inclusione collettiva la salvezza individuale: il campo è libero e vinca il migliore. Al posto del luogo di mediazione, il luogo di perdizione, in nome di un furore giustizialista che sembra non conoscere più limiti.Roma sarà allora il naturale capro espiatorio di questa “rivoluzione”. In una realtà che vedrà il generale degrado della collettività locale e della sua gestione, fino ai suoi limiti estremi; e, nel contempo la liquidazione, con la fuga verso il Nord di uomini, risorse e istituzioni. E in una rappresentazione, gioiosamente sostenuta da politicanti e “stampa indipendente” che interpretano il disastro in chiave antiromana; esattamente come, da più di qualche tempo, aveva attribuito all’indolenza per non dire alla naturale tendenza a comportamenti illegali dei meridionali la causa di tutti i mali del Sud. Così da giustificare, ieri nel Mezzogiorno oggi a Roma, la decisione di abbandonare i reprobi al loro destino.Un destino fatale e già scritto? Certo che no. Un disegno cui si può e si deve reagire? Certo che sì; ma a condizione, lo dico da romano di adozione, di far ordine in casa nostra.Non possiamo a questo punto tornare a essere una capitale nazionale senza avere una missione internazionale. E allora utilizziamo l’unica rimasta nelle nostre corde ma oggi di importanza vitale: la difesa anzi la promozione della pace, dell’integrazione e del dialogo tra i popoli. Ci si dirà magari, con quella smorfia di disprezzo propria dei laici in S.p.E. (oltre che di Salvini) che di questa roba si occupano i cattolici. Rispondiamo che collaborare con loro in questo campo (senza più trafficare con loro in altri) sarebbe una piacevole novità.Né possiamo essere punto di riferimento nazionale se non lo siamo nell’ambito delle nostri confini. Soffocati dal disordine istituzionale che ci circonda; fino a rivendicare come mendicanti quello che è un nostro diritto. In perenne e subalterna attesa di interventi e soccorsi e indicazioni esterne, spesso, se non quasi sempre , affidati all’affarista ben immanicato di turno. Incapaci di progettare, realizzare , controllare o almeno gestire alcunché. In attesa di risorse esterne perché non in grado di valorizzare o anche solo di conoscere le proprie. Da tempo privi di una classe dirigente degna di questo nome. E, per finire, al servizio passivo di un “modello di sviluppo” basato sul legame perverso tra sistema bancario e rendita fondiaria.Una situazione di degrado che è frutto di decenni di rinuncia a esercitare il nostro ruolo. E da questa situazione occorre ripartire. Per “cambiare verso” come diceva Renzi buonanima. Possiamo (è un appello a tutti gli uomini di buona volontà) cominciare a farlo. E da subito.
