UMBERTO SABA, L’ANTITALIANO

UMBERTO SABA, L’ANTITALIANO

Nel 1945, all’indomani della guerra mondiale, il poeta triestino Umberto Saba pubblicava un aforisma che, con folgorante lucidità, fotografava un carattere saliente della nostra cultura politica: un tratto essenziale che l’attuale governo giallo-verde rende, a quanto pare, di sorprendente e disperante attualità: «Vi siete mai chiesti – scriveva Saba – perché l’Italia non ha avuto, in tutta la sua storia – da Roma ad oggi – una sola vera rivoluzione? La risposta – chiave che apre molte porte – è forse la storia d’Italia in poche righe. Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani… “Combatteremo – fece stampare quest’ultimo in un suo manifesto – fratelli contro fratelli”. Favorito, non determinato, dalle circostanze, fu un grido del cuore, il grido di uno che – diventato chiaro a sé stesso – finalmente si sfoghi. Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio. Ed invece è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione. Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli.» (cfr. U.Saba, Scorciatoie e raccontini) Con singolare intuizione, Saba – appassionato lettore di Freud- ci offre, una “chiave che apre molte porte”, a partire dallo spostamento della rivalità edipica dal padre ai fratelli, come tratto dominante della storia politica italiana. Basterebbe del resto guardare alle tormentate vicende storiche che hanno accompagnato la formazione dell’unità nazionale (oggi nuovamente posta in discussione), per sottoscrivere convintamente il giudizio del poeta. Non è infatti un caso se le democrazie più mature (Inghilterra, Stati Uniti, Francia) siano nate da processi rivoluzionari, che hanno avuto la forza e il coraggio di decapitare il Padre – i vecchi ordinamenti- per dare inizio ad un nuovo regime. In Italia, per contro, il Padre politico è quasi sempre riuscito a rovesciare le proprie responsabilità e le proprie iniquità sui “fratelli” meno garantiti, additandoli come responsabili dell’infelicità collettiva. Persino la banale prassi, tutta italica, della “raccomandazione” (termine che non trovando corrispondenza lessicale nelle lingue anglosassoni, esige nella traduzione una particolare circonlocuzione) è di gran lunga più diffusa e consolidata della rivendicazione collettiva dei diritti. Essa discende dall’ atteggiamento di devota sottomissione al Padre, mediante il quale si confida nella sua speciale predilezione a scapito degli odiati “fratelli” che si trovano nelle medesime condizioni. In questo senso, la recente, ingloriosa esibizione balneare dell’inno “Fratelli d’Italia” da parte del vice-premier Salvini in costume da bagno rappresenta la perfetta parodia del patriottismo in salsa sovranista. Più in generale, nell’odierno contesto storico-politico, il Padre è rappresentato dagli invisibili poteri economico-finanziari che tanto più determinano e controllano il destino delle nazioni, quanto più queste si lasciano sedurre dal miraggio separatista. Altrettanto “paterna” si mostra la tradizionale egemonia politica degli imperi militari, come la Russia di Putin e gli U.S.A di Trump, di contro agli incerti assetti istituzionali dell’Unione europea, nella sotterranea, “fraterna” contesa di suoi Stati membri. Peraltro, intrinsecamente “fratricida” è la struttura dello stesso governo italiano, le cui forze politiche, Lega e M5S, appaiono sempre più impegnate in una permanente competizione propagandistica, che sospende le decisioni, al solo fine di procrastinare indefinitamente l’apertura di una esplicita crisi interna. Questa situazione di “guerra fredda” di tutti contro tutti, al di là degli aspetti più sconcertanti dell’attuale triumvirato di governo – che richiamano alla memoria le fasi più oscure dell’Italia prefascista – affonda le sue radici nella tradizione culturale del nostro Paese. Infatti, un corollario implicito nell’argomentazione del poeta triestino potrebbe rimandare alla tradizione del cattolicesimo popolare, incentrata sul culto dei santi e sulle preghiere di grazia di cui sono i destinatari. In questa prospettiva, anche la prassi della “raccomandazione” all’autorità di turno può essere vista come una forma secolarizzata delle suppliche al santo protettore. In un indimenticabile sketchdi Massimo Troisi e Lello Arena, due napoletani si contendono, a suon di ceri votivi, le grazie di S.Gennaro per ottenere i numeri vincenti al lotto; ed uno dei due, per screditare l’altro, lo presenta come devoto di S.Ciro, il santo “concorrente” di S.Gennaro, per suscitarrne la reciproca, “fraterna” gelosia . Del resto, nel linguaggio comune, l’espressione “avere santi in paradiso” significa appunto avere solidi punti d’appoggio nelle sfere del potere: canali privilegiati per ottenere soddisfazione dei propri inconfessabili egoismi. Anche il culto della vergine Maria, con le numerose apparizioni che ne moltiplicano l’icona in altrettante “madonne” locali- unica figura della Sacra Famiglia che declina la propria identità in base al suo luogo di culto- mostra il medesimo fondamento. Per questo, una delle ragioni che la propaganda istrionica del vice-premier Salvini utilizza strumentalmente per legittimare le opzioni più retrive, trova la sua genealogia nelle pratiche rituali del rosario e della devozione mariana. Godendo come Madre di un particolare ascendente sul Figlio, la Madonna può intercedere per i peccatori con più alta probabilità di successo; sicché il privilegio incalcolabile della “grazia ricevuta” – che, in quanto razionalmente imperscrutabile, potrebbe persino apparire iniquo – trova accoglienza nella nube del “mistero glorioso” fondato sull’insondabile arbitrio della Regina coeli, al di là di ogni umano “merito”.