UN INQUILINO
Non ero molto interessata all’amore. Acquietavo di tanto in tanto i miei ormoni ancora vivaci, ma non volevo qualcuno per casa e per il cuore a fare disordine. Vivevo come un uomo solo, vivevo come mio padre. Paolo era perfetto. Fieramente senza una lira, diventò un inquilino della Pollarola. Mente fina e libera, lavorava nella Redazione di Lotta Continua. Grande affabulatore, grande conquistatore, grande bevitore. Uomo divertente. Aveva avuto un incidente d’auto che gli aveva sgangherato il viso. Gli mancava anche un dente, ma non aveva i soldi per rimetterselo e io avevo una stanza vuota. Si creò tra noi un sodalizio, una complicità che non avrei più avuto con nessun altro uomo. Ci scambiavamo libri, ci facevamo il té in silenzio, andavamo alle mostre, ci aiutavamo nelle spese senza chiedere o recriminare, cucinavamo ascoltando la musica country che piaceva ad entrambi. Qualche notte lo sentivo entrare, spogliarsi al buio sbattendo e facendo “sssst” da solo, ubriaco perso, e infilarsi nel suo letto. Avrei potuto abitare solo con lui, niente sesso, molto amore. Sul suo comodino gli facevo trovare una bottiglia di soluzione Schoum, che Paolo era convinto facesse un gran bene. In effetti al risveglio stava molto meglio lui. Telefonavo al bar di sotto:“aò….”“Ciaobbella, te porto er cappuccino. Uno o due, c’è Paolo?”Paolo piaceva al barista, come piaceva a tutti, soprattutto alle donne. Doveva esser stato molto bello prima dell’incidente, e lui si muoveva come se lo fosse ancora. Io stessa lo vedevo bello, gli leggevo l’anima, lo proteggevo come una madre e mi affidavo come una figlia. Spariva per giorni, ma sapevo che c’era. Non era un amante, ma una creatura molto più preziosa che aveva il dono di prendere il capo di una matassa impicciata e crearne un gomitolo. Era depositario di quella complessa semplicità che avevo sempre cercato.In quel periodo vivevo Roma, ancora splendida, e i suoi abitanti. Conoscevo molte persone, entravo e uscivo da ambienti diversi. Girava molta cocaina nelle case dei ricchi, molte canne in quelle borghesi o intellettuali, molto vino in quelle dei poveri. A volte c’era di tutto un po’ ovunque. Per dire no a qualcosa prima la devi provare, pensavo. Quello che mi ha salvato è stata la mia fobia per le vertigini. Appena mi girava la testa smettevo ogni sperimentazione . Dovevo prendermi cura di me, era questa la priorità: tenermi sotto controllo. Paolo mi aiutava. Era severo nel valutare le persone, e mentre io scivolavo tra cose e persone, mi lasciavo vivere, lui e la sua faccia sgangherata si mettevano di punta, sapevano discutere, scoprire, affrontare, litigare. L’alcol gli faceva dire sempre quel che pensava e spesso ci trovammo fuori da qualche porta. Uscivo con lui, naturalmente, magari lasciando cene a metà:”tanto erano stronzi…” Annuivo, docile.Mi offrirono di andare a lavorare A Tempo Illustrato, una testata storica morta anni prima e poi rinata per supportare un periodo elettorale. Avrei dovuto affiancare il mitico art director dell’ambiente fotografico, Franco Lefebvre che veniva dall’Espresso, creare l’archivio, occuparmi di trovare le immagini per i pezzi. In realtà io volevo diventare giornalista e mi sembrò un’ottima opportunità per iniziare. Pensavo che avrei potuto continuare anche a lavorare all’agenzia fotografica, ma ormai il suo tempo era scaduto. Si sciolse, con mio grande dispiacere. Chiesi al direttore di Tempo illustrato per Paolo un posto tra i grafici. Cosí lui lasciò Lotta Continua, dove era pagato poco o affatto, e si sistemò in un grande salone della redazione. Sembrava che tutto andasse bene, eravamo giovani, intelligenti, amati, odiati, comunque considerati, guadagnavamo bene ed eravamo anche vestiti a modo. Il ballo poteva cominciare.Una mattina mi chiamò il direttore, che era Lino Jannuzzi. Nella sua stanza c’era un fotografo dell’agenzia. Che ci faceva lí? Strano. E come tutto ciò che è strano, inquietante.“È successa una cosa”.Un altro incidente, e questa volta Paolo non ci aveva lasciato un dente, ma la vita. La sua vita splendente. Era successo al posteggio di quel maledetto Parco Lambro, una delle manifestazioni più sinistre della storia di quegli anni. Era morto in un incidente stupido, tra gente stupida e stupido lui che c’era voluto andare per forza!Sul piazzale del Verano Luigi Manconi fece un bel discorso. A tratti mi sembrò parlare di uno sconosciuto. C’era tanta gente, molte persone che non conoscevo. Una ragazza, che non volli sapere chi fosse, piangeva più di altri. Mi sentii improvvisamente estranea: Paolo, come Miciozzo, aveva molte vite e molte case. Dovevo tenermi stretto quel che era stato nostro e lasciare tutto il resto agli altri. Chiamai sua madre, le restituii quello che lui aveva lasciato alla Pollarola, tranne una bottiglia di Soluzione Shoum appena iniziata, e le regalai tutte le foto che avevo fatto a Paolo, negativi e stampe. Ne tenni solo una, dove lui mi guarda dritto negli occhi.
