PALESTINA, ISRAELE. NESSUNA PACE TRA GLI ULIVI. A CHE GIOCO GIOCA TRUMP?
Quanto meno anomale le modalità con le quali Donald Trump ha inteso presentare il suo piano di pace, che, parole sue, dovrebbe risolvere una volta per tutti i secoli futuri il conflitto arabo palestinese. Uno degli attori del conflitto Bibi Netanyahu, presente, sorridente e plaudente. Degli arabi, presenti solo alcuni comprimari come Baharein, Oman ed Emirati arabi. Notoriamente interessati al bene dei palestinesi come a quello degli esquimesi. I palestinesi medesimi lontani dagli occhi e col cuore denso di amarezza per l’affronto ricevuto. Il 30% della West Bank rimarrà in mani israeliane. In violazione di quanto riconosciuto dalle Nazione Unite. Gerusalemme capitale indivisibile dello Stato ebraico. Il contrario di quanto avrebbe dovuto esprimere una mediazione che anche ai palestinesi doveva riconoscere diritti sulla città. Salvo poi ipotizzare, per il futuro, il contentino di un possibile quartiere ben al di fuori delle mura ad oriente, con la possibilità di instaurarvi la propria capitale, con tanto di ambasciata a stelle e a strisce, ma a determinate condizioni. Vale a dire smilitarizzazione della striscia di Gaza e smantellamento di Hamas. Quindi, mentre Israele si tiene la sua brava atomica i palestinesi devono rinunciare ad avere un esercito e pure ad una rappresentanza, politica (Hamas) che avrà pure enormi difetti, ma che era stata, diverso tempo addietro, regolarmente eletta. Contropartita, ma diamo tempo al tempo (4 anni) e a patto di comportarsi bene, il riconoscimento di uno stato palestinese da parte degli Usa. Inoltre, la creazione di un tunnel che colleghi Gaza alla Cisgiordania. Insomma, qualche metro quadro di Israele verrebbe concesso ai palestinesi, a patto che riconoscano che quasi tutti gli insediamenti dei coloni israeliani in quei territori, effettuati a dispetto di quanto riconosciuto come reato in sede Onu, non vanno toccati. Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato. Per finire la possibilità di incassare 59 miliardi di dollari per risanare la loro economia, se si comporteranno come si deve. Qualcosa che ricorda il Piano Marshall, che guarda caso rappresentò l’aiuto del vincitore per paesi che riconoscevano la loro sconfitta. In conclusione, una proposta che nemmeno un folle potrebbe accettare ad un tavolo di negoziato, se non al prezzo di venire linciato una volta tornato dalle proprie parti ad annunziare la lieta novella del brillante accordo raggiunto. Il tutto meriterebbe solamente commenti sarcastici se non ci fosse da tenere in considerazione che Trump e &, a dispetto di quanto creduto da molti, non sono così folli come sembrano e che quindi la proposta una sua logica la contiene. Ordunque, a che gioco sta giocando Donald? E di conseguenza quale gioco sta praticando Bibi? Può essere utile, per semplificare le cose, prefigurare tre scenari, nel corso del tempo: breve, medio e lungo periodo. Nel breve è chiaro che ad entrambi produrre un poco di fumo, o meglio di nebbia, possa servire come strumento di distrazione di massa. Impeachment per Trump ed elezioni per Netanyahu, con tanto di beghe di non poco conto per quest’ultimo. Ipotesi legittima, ma prima o poi il fumo è destinato a sollevarsi. Per Donald la prospettiva è quella di un sostegno dovuto, più che voluto dai compagnucci della parrocchietta repubblicana, sempre maggioritari al senato, anche se tra di loro serpeggia il malumore di qualcuno che, trombato da Donald, sta cominciando a vuotare il sacco sulla questione ucraina (Bolton, tanto per non far nomi). E anche per Bibi la cortina fumogena mica sarebbe una grande garanzia, visto che pure per molti suoi amici ed alleati le sua presenza alla ribalta, con grane giudiziarie al seguito, è gradita come un’esplosione di orticaria. Più rilevante la strategia di lungo periodo. Alcuni analisti ritengono che i palestinesi stiano attraversando un periodo di particolare debolezza. Messi alle strette economicamente i loro leader, da Hamas al più collaborativo Abu Mazen, non avrebbero più quel rabbioso sostegno delle masse che solo può costituire un deterrente all’aggressività di Tel Aviv sul piano interno. I prossimi giorni e la riuscita delle manifestazioni di protesta previste a partire da venerdì costituiranno un valido test in proposito, relativo alla loro vulnerabilit. Ma questo riguarda Bibi. Per Donald quello che conta è invece prendere due piccioni con una fava. Ingraziarsi Israele da un lato, ma anche con la finalità di far crescere un accerchiamento del nemico iraniano dall’altra. Va bene che finora lo scontro Usa Iran si è mantenuto al di qua della soglia di un immane conflitto. Ma nel futuro non è detto che ciò debba durare all’infinito. In parte perché non è detto che Trump e chi gli sta dietro non possano perdere il controllo della situazione, come i proverbiali apprendisti stregoni. In parte perché la situazione è densa di imprevisti. Se è vero che in Iraq sta montando l’onda delle proteste, istituzionali e di piazza, contro gli Usa, è anche vero che l’impoverimento di Tehran e il rafforzamento di una rete di paesi sunniti capeggiati dall’Arabia saudita può configurare uno scenario bellico tutt’altro che impossibile. In quaesto senso gioca a favore di Trump il situarsi dalla parte del suo piano non solo di Ryad, ma anche del Cairo di al Sisi che lascerebbe i libanesi e pochi altri, a fiancheggiare i palestinesi, gli iraniani e i loro possibili ulteriori alleati. Sull’altro fronte, infatti, a favore dei palestinesi, abbiamo avuto una dichiarazione di Erdogan, pronto, sulla carta, a scatenare la Jihad e l’Isis contro Israele. Un alleato solo eventuale e tutt’altro che comodo per i palestinesi, impegnati a dimostrarsi campioni della non violenza. Anche in questo caso non resta che attendere per vedere come si manifesteranno le forze in campo. Resta inoltre una dimensione di medio periodo, che interessa soprattutto Trump e che si riferisce alle elezioni americane. E’ noto che Donald ci tiene, in generale, ad avere dalla sua parte il consenso della comunità ebraica statunitense e in pari grado della potente comunità evangelica, schierata con Israele. Gli esperti delle segrete cose Usa ci segnalano in tal senso che le future sorti elettorali di Trump potrebbero dipendere dal voto di uno stato-chiave, la Florida, che nel quadro nazionale conta parecchio e dove il voto ebraico pesa in misura ben superiore alla media. Vuoi vedere che le tribolate sorti della Palestina debbano dipendere da quanto avviene per le vie di Miami? Chiamiamola, se vogliamo, globalizzazione
