STORIA DI UN GRANDE SACRIFICIO. ALLE ORIGINI DEL RAZZISMO

È passata poco più di una settimana dall’ennesimo episodio di intolleranza avvenuto all’interno del nostro Bel Paese, stavolta nel comune di Sondrio. La protagonista era una donna nigeriana accorsa in ospedale per far visitare la sua bimba di cinque mesi colta improvvisamente da un malore. Ce lo ricordiamo tutti: la visita nel reparto astanti e di lì a poco lo spegnimento della neonata, cui han fatto seguito le inevitabili urla di dolore della madre che hanno, per così dire, disturbato le persone in sala d’attesa. Una quindicina, per la precisione, tutte sopra la cinquantina, che canzonavano quegli strepiti definendoli “Rito tribale”, “Rito satanico”, “tradizione africana” e quando sono venuti a conoscenza della loro vera causa hanno aggiunto che “tanto ne sfornano uno all’anno”. Non è bastato, in altre parole, il dolore di una madre, né quel tanto di compassione che una morte in culla può suscitare nel più insensibile degli animi, a far recuperare a questi signori quell’umanità che avrebbe loro consentito di vedere una persona, in quella donna. Nella loro testa si era ormai sedimentata quella che in certi ambiti viene definita percezione delirante, secondo la quale, nonostante la figura che si ha davanti, donna o uomo che sia, adulto o bambino, giovane o anziano, si continua a percepire un’immagine diversa, poiché vista attraverso un’idea fissa anziché i propri occhi. Nella fattispecie, la donna era stata trasformata in qualcosa di simile a un animale primitivo, dedita ai riti sacrificali e a sfornare bambini. Un caso di palese perdita di rapporto con la realtà, e non è stata né la prima, né l’ultima volta che abbiamo assistito a episodi di questo tipo. Risale a ieri (ndr sabato 21 dicembre) l’episodio della famiglia di origine ghanese trasferitasi nel comune di Melegnano, in provincia di Milano, e invitata dai condomini a togliere il disturbo attraverso dei biglietti trovati dal padre sull’uscio della porta, accompagnati da insulti di ogni tipo vergati su fogli di carta straccia. La scusa era il chiasso di cui si lamentavano i vicini, e in effetti con due bambine piccole e le pareti sottili, la vita non doveva essere facile per nessuno, ma il fatto che le proteste per i rumori fossero accompagnate da epiteti come “Negri”, “animali” o “ignoranti” lascia pensare che l’insofferenza per il baccano si fosse spostata su qualcos’altro. L’intolleranza è una piaga che si sta imprimendo in modo sempre più profondo all’interno delle società occidentali; un sentimento diffuso su cui chi vuole governare applicando politiche basate su odio, ignoranza e paura del diverso trovano terreno fertile, e si alimentano a vicenda scatenando un circolo vizioso contro il quale rifiuto e resistenza rimangono le uniche armi da contrapporre. A volte però verrebbe anche da chiedersi perché proprio loro. I cosiddetti “negri”, nella fattispecie, ovvero quei popoli originari dei paesi africani, ancora oggi sotto scacco dei cosiddetti paesi civilizzati e delle loro politiche di sfruttamento. Il discorso della pelle regge, ma fino a un certo punto, perché allora lo stesso accanimento sarebbe rivolto anche ai cosiddetti “musi gialli”, e invece cinesi e giapponesi sono quasi perfettamente integrati all’interno delle nostre società. C’è chi pensa che i popoli del terzo mondo siano per natura più deboli, e una storia che racconta secoli di sfruttamento, in effetti avalla questa tesi, ma se vogliamo andare un po’ oltre con il ragionamento, forse la frase pronunciata dal benpensante nella sala d’attesa dell’ospedale sondriasco può divenire una utile cartina di tornasole. Parlava con stizza di “rito tribale”, e questo non può che ricondurre a quelle che sono le origini dell’umanità, ai primi stanziamenti avvenuti proprio in quei territori africani oggi presi di mira, quando ancora stazione eretta e linguaggio articolato non erano prerogative dell’uomo; uno stadio in cui la ragione non la faceva certamente da padrone come oggi e da cui tutti abbiamo origine, dal cinese, all’indiano, dal “negro” al maschio bianco occidentale. Uno stadio definito “animale”, poiché l’uomo ancora non aveva sviluppato il linguaggio, né aveva imparato a costruirsi i ferri del proprio mestiere, ma come ci raccontano le numerose pitture rupestri rinvenute nell’ultimo secolo, già portava con sé una creatività che in realtà lo distingueva dal mondo animale: quel fare le cose per niente, per una semplice esigenza di espressione che lo accompagna sin dalle proprie origini. Uno stadio che quindi potrebbe essere più corretto definire “irrazionale” anziché animale, da contrapporre a quella razionalità che gli ha permesso in seguito di costruirsi le prime armi e guadagnarsi il proprio primato nella lotta contro la natura. Un fare necessario, pagato con il sacrificio di quella stessa dimensione irrazionale relegata poi agli artisti, ma anche alle donne, ai bambini e insomma a tutti coloro che si occupano delle cose inutili, e non è un caso che siano storicamente le categorie maggiormente osteggiate all’interno delle società occidentali. Viene da chiedersi se all’interno di questo grande calderone non rientrino anche questi popoli definiti del terzo mondo, anch’essi immagine di un qualcosa che l’uomo devoto al progresso ha sempre voluto rinnegare, pena la paura di rimanere sconfitto nella propria lotta per la sopravvivenza. La questione rimane aperta, quello che è certo è che in questo meccanismo basato sulla dinamica mors tua, vita mea, qualcosa negli ultimi tempi sta sfuggendo di mano: fino a oggi l’uomo del progresso ha dimostrato che, almeno nei confronti della lotta contro la natura, la sua strategia risultava vincente. Anche se a scapito di qualcun altro, anche se a scapito di una dimensione di sé che ha reputato necessario sacrificare. Ma gli equilibri si stanno invertendo e anche ciò che era convinto di essere riuscito a dominare, per la prima volta sta dando una palese dimostrazione che non è così.